Sabato in Poesia: "Vendemmia" di Marino Moretti

Vendemmia di Marino Moretti è una poesia tratta dalla raccolta Sentimento: pensieri, poesie...

Roma capitale d'Italia

Chissà quanti studenti ed ex studenti liceali si sono trovati a tradurre la famosissima frase del De Oratore...

L'origine della crisi finanziaria statunitense

La crisi che ha interessato i mercati finanziari dei paesi maggiormente sviluppati, e che gli esperti...

Così cinque anni fa cominciava la crisi...

"Era una notte buia e tempestosa...", questo è l'incipit dell'interminabile romanzo che Snoopy...

Sabato in Poesia: Estratto di "Beppo, racconto veneziano" (George Gordon Lord Byron)

Beppo è un poemetto satirico in ottave ariostesche (secondo lo schema metrico ABABABCC), attraverso il quale Byron affronta...

26 febbraio 2013

Chi ha vinto le elezioni?

di Roberto Marino

In ogni guerra che si rispetti, dopo la battaglia o le battaglie decisive, c'è sempre la conta di chi ha vinto e chi ha perso. E che questa campagna elettorale sia stata una guerra lo si può tranquillamente affermare, se solo si  fa mente locale alle dichiarazioni, agli atteggiamenti, ai comportamenti dei singoli partiti e delle coalizioni. Dichiarazioni violente di sbranamento, di smacchiamento di giaguari da una parte. Attacchi continui con i soliti rifrain anti-comunisti e anti-magistratura, conditi con proposte economiche allettanti ma di dubbia realizzabilità, provenienti dall'altra. Appelli duri al necessario superamento di logiche e arroccamento ideologici, pur rimanendo nell'ambito del riformismo moderato, dal "centro" e desiderio di azzeramento totale di tutta la classe politica così come della sua logica, dal partito borderline par excellence, il Movimento cinque stelle. 

Ciò detto, veniamo alla conta e agli scenari che si prospettano proprio sulla base dei risultati. Innanzitutto, il risultato più eclatante è che ci sono due vincitori netti, senza ombre offuscanti né possibilità di fraintendimenti: il Movimento cinque stelle e l'astensionismo. Per quanto riguarda il partito guidato da Beppe Grillo, attestandosi ad oltre il 25% delle preferenze alla Camera e a quasi il 24 al Senato e divenendo così il primo partito italiano nel primo ramo del parlamento, è riuscito ad incarnare il sentimento di rifiuto dei cittadini nei confronti della politica ancora ideologica, chiacchierante, astratta, sofistica e per nulla pragmatica che ci ha accompagnato negli ultimi 20 anni, e a trasformare tutto ciò in voti utili. 

Complici anche i buoni risultati che il Movimento sta ottenendo in Sicilia, lo schieramento guidato da Grillo ha dimostrato di saper portare avanti una politica di idee, proposte - alcune accettabili e più che ragionevoli, altre neppure auspicabili - mostrando anche senso di responsabilità pragmatico nel votare singoli provvedimenti coincidenti con le idee ed il programma, nel caso del consiglio regionale siciliano, nel decidere di farlo in ambito nazionale.

Per quanto riguarda l'astensionismo invece, i dati ci dicono che è cresciuto di oltre il 5%, registrando una partecipazione alle urne intorno al 75% degli aventi diritto al voto. Questo dato è allarmante e se sommato al trionfo del Movimento cinque stelle, fotografa una situazione di profonda frustrazione e incredulità da parte dell'elettorato italiano nei confronti della politica tradizionale. Un fatto senza precedenti nella nostra storia repubblicana. 

Un altro grande vincitore è Silvio Berlusconi, mentre la stessa cosa non si può dire del Popolo della Libertà. Ancora una volta, questa tornata elettorale si è dimostrata essere un referendum popolare sul carisma, sulla fiducia elettorale e sul potere mediatico di cui gode il leader e presidente di questo partito. Sicuramente - come molti commentatori e analisti politici hanno affermato - i risultati hanno dimostrato che gli elettori non hanno gradito una certa politica di austerità e una certa idea di Europa poco elastica, ma è altrettanto vero che per l'ennesima volta Berlusconi ha saputo catalizzare l'attenzione su di sé e a raggiungere un risultato personale più che soddisfacente. E questo è un dato più che significativo, viste le condizioni di partenza del suo partito - che i sondaggi davano al 12% circa prima del rientro del suo leader - e visti i numerosi temi in ballo. 

La stessa vittoria non può essere attribuita (non si parla ovviamente in termini numerici) però al Popolo della Libertà, che dimostra di essere ancora immaturo e non in grado di portare avanti una campagna elettorale soddisfacente in autonomia. Queste valutazioni sono dipendenti ovviamente dal valore dei sondaggi e delle intenzioni di voto, che hanno sicuramente un peso indicativo e tutto da verificare. Sia come sia, in ogni caso non è certo trascurabile il fatto che, con il rientro di Berlusconi, anche i sondaggi pre-elettorali annunciavano un recupero clamoroso delle preferenze dei cittadini nei suoi confronti, che poi si sono trasformate in preferenze in sede di voto effettivo. Tutto ciò fa riflettere sul fatto che la politica accentratrice di un leader molto carismatico all'interno di un partito, se paga nel breve/ medio periodo, crea danni nel futuro per quanto riguarda la propria autonomia. Cosa farà, come si riorganizzerà, quali decisioni strategiche deciderà di prendere questo partito quando si vedrà orfano del suo leader maximo? Certo, queste sono valutazioni non impellenti per il Pdl, ma sicuramente bisognerà fare i conti anche con questa situazione, almeno dal punto di vista interno al partito. 

E veniamo ai grandi sconfitti. Sicuramente il Pd perde clamorosamente. Non dal punto di vista numerico, in quanto mantiene la maggioranza relativa dei voti sia alla Camera che al Senato; tuttavia il partito guidato da Bersani non ottiene al Senato il numero di seggi sufficiente per rendere governabile quella parte di parlamento e di conseguenza il Paese. Se si mette a confronto il risultato che le urne ci hanno presentato con la popolarità che il Pd aveva acquistato un paio di mesi fa e con i toni trionfalistici con cui già pregustava la vittoria, a fronte anche di un'esperienza fallimentare del governo di centro-destra sia in ambito nazionale che regionale, si può capire come il partito guidato da Pierluigi Bersani abbia totalmente fallito anche questa volta. Lo spauracchio di Berlusconi ha nuovamente neutralizzato i "buoni propositi" e tutto l'entusiasmo e l'esaltazione che il Partito democratico aveva all'indomani delle primarie di coalizione. 

L'altro sconfitto appare Monti. Dico appare, perché in fondo quella di Monti è una sconfitta onorevole. Come lo stesso premier dimissionario ha ammesso ieri sera - "Era stato da alcuni ipotizzato un risultato leggermente superiore, ma devo dire che io sono molto soddisfatto alla luce di alcuni elementi: anzitutto i tempi. In 50 giorni abbiamo avuto oltre 3 milioni di elettori" - e come sostiene Aldo Cazzullo in un articolo sul Corriere della Sera, che parla di risultato non disprezzabile, non si può non ammettere che, date le circostanze, Monti ha sostanzialmente tenuto, pur deludendo le aspettative dei sondaggi. Il premier infatti, pur uscendo da un'esperienza di governo austero costantemente esposta agli attacchi di Lega e Pdl così come a quelli della gente comune, pur organizzando un partito in poco più di un mese e mezzo di campagna elettorale, pur non avendo una solida struttura storica e una cultura ideologica alle spalle (Fini e Casini sono stati sostanzialmente ininfluenti) è riuscito a raggiungere il 10% delle preferenze alla Camera con un apporto del 8% circa del partito Con Monti per l'Italia in coalizione e il 9% al Senato. 


All'interno dello schieramento centrista, gli altri due perdenti clamorosi sono Futuro e Libertà di Fini (che non entra in parlamento) e l'Udc di Casini che, seppure riesce nell'ardua impresa di restare, ottiene pessimi risultati (1,78%).


Infine, anche il partito di Ingroia subisce un battesimo decisamente fallimentare, decretando il fallimento della logica della magistratura prestata alla politica, come anche l'esclusione di Antonio di Pietro dimostra.

Che cosa accadrà adesso? Il problema più impellente da risolvere sarà quello di adoperarsi per formare una maggioranza parlamentare ed un governo che possano avere un minimo di stabilità, ma questo risulta molto arduo dal momento che manca una maggioranza tecnica di seggi al Senato. 
Questa legge elettorale, pensata per ridare vigore ad un sistema bipolare in affanno già da qualche anno, la delusione degli elettori nei confronti della vecchia politica, la ricchezza e l'articolazione dell'offerta politica hanno contribuito alla situazione di instabilità e di palude paralizzante che si è creata. Creare una maggioranza parlamentare ed un governo senza avere i numeri al Senato - al centro-sinistra, partito di maggioranza relativa, vengono assegnati 119 seggi a fronte di 117 del centro-destra, 54 del Movimento cinque stelle e di 18 della coalizione Con Monti per l'Italia - risulta impossibile. Allo stesso modo, viste le diversità programmatiche e le abissità valoriali, risulta difficilissimo trovare una convergenza tra centro-sinistra e centro-destra, allo scopo di formare una maggioranza di larghe intese; così come risulta impossibile un'alleanza tra centro-sinistra e Movimento cinque stelle, a giudicare dalle dichiarazioni del leader Grillo. I problemi non si pongono alla Camera, dove il partito vincente - la coalizione di centro-sinistra - ha usufruito del premio di maggioranza del 55% dei seggi, pur avendo superato il centro-destra di solo 0,4% dei voti. Magie del porcellum! 

Cosa fare dunque? Staremo a vedere cosa faranno i partiti. Una cosa è certa: la politica tradizionale non è stata in grado, nel tempo né tanto meno nella campagna elettorale, di dare quelle risposte ai problemi che i cittadini invece aspettavano. A questo punto - e ci riferiamo al medio periodo - i partiti dovrebbero non tanto arrendersi - come dice e auspica Grillo - quanto riformarsi profondamente dalle fondamenta, presentando una immagine ed una essenza che innanzitutto coincidano e che si configurino come credibili, realistiche, pragmatiche, capaci, austere, in grado di dire addio ai propri privilegi e al proprio status socio-economico protetto e surreale. Il movimento di Grillo lo ha fatto e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

21 febbraio 2013

Genealogia della bugia all'italiana

di Roberto Marino


Sembra che l'italiano non riesca a fare a meno di mentire. E' una sorta di deformazione culturale, una non ben precisata distorsione che appartiene al carattere storico-sociale dell'italiano. L'affaire Giannino - che coinvolge il giornalista e candidato premier per il movimento Fare per fermare il declino in uno scivolone su presunti titoli accademici che gli avrebbero e si sarebbe attribuito - dimostra che l'italiano non riesce a fare a meno di dire bugie, anche quando questo rischia di mettere a repentaglio ciò che di buono è riuscito a costruire.

Si potrebbe tentare di ricostruire una breve genealogia della tendenza dell'italiano a modificare la realtà - forse però in questo caso si dovrebbe parlare più di trasfigurazione - e allora si potrebbe trovarne l'origine nella creatività dell'uomo italiano, nella sua voglia di trasgressione, di evasione, nella sua vanagloria ancestrale. Qualcuno con orgoglio - anche se non è un bel ricordo per la nostra nazione - definiva gli italiani "popolo di poeti e navigatori", guarda caso figure che sono entrambe legate strutturalmente al dire bugie. Il poeta è un trasfiguratore di quella che considera una gretta realtà, mentre si dice che il navigatore, il marinaio - non me ne vogliano gli impiegati nel settore - siano mentitori par excellence. Io aggiungerei anche che l'italiano è seduttore e che per raggiungere il suo obiettivo (affascinare, convincere, sedurre appunto) utilizza in particolar modo l'arma dell'ampliare la realtà.


C'è da dire però che nel caso specifico di Oscar Giannino, il giornalista e candidato premier ha saputo gestire l'incidente con onestà e coerenza. Nonostante sia stato preso - come egli stesso ha spiegato ieri sera alla trasmissione Le invasioni barbariche - da una sorta di desiderio di rivalsa per non aver conseguito un titolo accademico accumulatosi nel tempo, che poi si è trasformato in un non più controllabile atteggiamento divertito di "scherno" nei confronti di dotti ed eruditi, è stato in grado di fare un passo indietro. Ha deciso di abbandonare la presidenza del partito da lui stesso co-fondato insieme alla collaborazione di illustri rappresentanti del mondo della cultura, della ricerca e delle professioni, e di rinunciare al seggio in parlamento. Giannino ha sicuramente dato una buona lezione di stile e coerenza a tutti coloro che ricoprono un ruolo di responsabilità (politica in testa) e, venendo scoperti in fallo, si abbarbicano strenuamente al loro posto, ruolo, incarico. Però...


C'è un "però" che bisogna analizzare e non è di poco conto. E' vero che bisogna distinguere la vita privata dalla vita pubblica e di conseguenza l'uso che si fa di alcune cose in entrambe le dimensioni, tuttavia un personaggio che decide di entrare a far parte della vita pubblica è tenuto ad un rispetto del buon gusto e della propria immagine molto di più rispetto a chi resta nell'anonimato. E' come se si verificasse il fenomeno dei vasi comunicanti, in cui vita pubblica e privata, se proprio non si sovrappongono, tendono a travasare l'una nell'altra. E' quasi inevitabile che avvenga. E di questo bisogna tenere conto.


L'incidente verificatosi non mette in discussione le buone idee del movimento, che restano tali, tuttavia la credibilità, non solo del suo leader ma anche dell'intero schieramento, rischia di essere messa in discussione. Perché dunque - ci si domanda - è accaduto tutto questo? Tutte le possibili spiegazioni, analisi, giustificazioni - date anche dal diretto interessato - convincono difficilmente e lasciano comunque, per forza di cosa, qualche ombra sulla vicenda. Anche perché Giannino vanta un curriculum esperienziale e professionale - magari non ricco di titoli accademici ufficiali, ma sicuramente di cultura, conoscenze e di impegno nel mondo del giornalismo e della politica - di tutto rispetto.


E allora? E allora si ritorna al principio. L'uomo, l'italiano in particolare, è un po' leggero, non sempre attento e preciso, vanaglorioso.

16 febbraio 2013

L'Italia che deve cambiare

di Roberto Marino

E’ proprio vero che le grandi menti della storia hanno una lungimiranza sorprendente. Platone, filosofo greco vissuto 2500 anni fa, aveva individuato già allora – in tempi non sospetti si dice oggi – le due caratteristiche fondamentali per poter guidare bene uno stato: competenza e moralità. La storia dell’umanità ha fatto molta strada dai tempi d’oro dell’età classica, eppure sembra che questa lezione politico-filosofica di alto profilo morale in Italia sia stata proprio dimenticata.

Volendo divertirsi a scorrazzare tra le pagine di quello che è il capolavoro delle fatiche speculative e letterarie di Platone, La Repubblica, ci si imbatte nella descrizione della classe sociale che per il filosofo può e deve avere quelle caratteristiche fondamentali per reggere bene uno stato. Platone sostiene che i filosofi siano gli unici in grado di svolgere questo difficile compito – una responsabilità ed un onore, come si capisce dal discorso, non una opportunità personale – perché dotati di quelle caratteristiche naturali innate e di quei valori e competenze acquisite con una adeguata educazione ed una consona formazione. Il filosofo insiste molto su questi due aspetti, tanto da arrivare a sostenere che i reggitori debbano avere una approfondita conoscenza della disciplina scientifica, giuridica, amministrativa e del Bene e che non si lascino traviare dalla seduzione della ricchezza. In particolare, sull’ultimo punto dice che i reggitori non dovranno possedere ricchezze private; una blasfemia gravissima per la politica odierna!

Ebbene, dove sono finite queste idee così suggestive? – ci si potrebbe chiedere guardando la politica italiana. Ci troviamo di fronte ad una situazione veramente drammatica per la vita e la salute del nostro Paese: corruzione dilagante (pochi giorni fa la Corte dei Conti ha lanciato l’allarme sulla dimensione sistemica che questa piaga ha assunto in Italia); scarsissimo senso morale e di responsabilità nei confronti del proprio delicato ruolo, individualismo sfrenato; incapacità diffusa di pianificare un progetto coerente, armonico e lungimirante, che consenta lo sviluppo e la crescita dell’Italia. Queste le caratteristiche del ceto politico dirigente italiano.

Essendo la politica un fatto umano che affonda le radici nella dimensione culturale e sociale di un paese, ne diventa espressione più manifesta. Eppure dovrebbe e potrebbe essere guida di una società sbandata, presentandosi punto di riferimento. Se una comunità non può puntare infatti su quella categoria dirigenziale che si pone ad esserne testa, su chi altri dovrebbe fare affidamento?

Questa nuova tornata elettorale ci presenta invece una classe politica vecchia – a parte qualche eccezione che si spera possa determinare un reale cambiamento – con logiche populiste, demagogiche, incapace di interpretare ed esprimere il bisogno di novità chiesto, o forse solo auspicato dai cittadini e preteso dalle istituzioni internazionali.

Esempi di vecchiezza delle logiche, del senso di impunità dietro cui si trincerano i partiti tradizionali e i suoi leader ce ne sono tanti. Il mancato accordo bi-multi-partisan sulla riforma della legge elettorale, tanto vituperata da tutti ma ripudiata da nessuno, come una moglie ingombrante per tutti ma comoda in fondo per ciascuno. Le candidature parlamentari smacchiate con i detergenti delle “rigorose selezioni” delle segreterie dei partiti e imbellettate, che nascondono tessuti logori e rughe profonde e che portano i media ad attendere con ansia i totonomine (pur non essendo noi inglesi scommettitori incalliti, ma si sa la globalizzazione esiste anche sotto l’aspetto culturale) tanto per ridere o piangere un po’. Gli scandali continui di coinvolgimenti materiali e morali – anche questi multi-partisan, perché l’Italia in questo è molto democratica – di esponenti politici o di interi partiti su cui indaga o meno la magistratura. Insomma, il calderone è decisamente pieno e la minestra si preannuncia succulenta.

Dall’altra sponda del fiume lento della società italiana, si presentano forze politiche poco strutturate, organizzate per lo più in movimenti, che si pongono come scuotitrici delle acque stagnanti. Presentano programmi decisamente concreti (quello di cui l’Italia ha estremamente bisogno) con soluzioni più o meno valide e con analisi dei problemi sicuramente condivisibili.

C’è da fidarsi? – ci si chiede. Non c’è alternativa – si può rispondere. L’unico mezzo che abbiamo per cambiare è quello di cambiare sul serio, scegliendo consapevolmente, e dopo un’attenta analisi dei programmi, delle idee, delle soluzioni ai problemi, lo schieramento che incarna realmente quei due elementi posti in campo da Platone: competenza e moralità. A volte, anche se non sempre, guardare al passato è l’unico modo per realizzare il futuro.