Sabato in Poesia: "Vendemmia" di Marino Moretti

Vendemmia di Marino Moretti è una poesia tratta dalla raccolta Sentimento: pensieri, poesie...

Roma capitale d'Italia

Chissà quanti studenti ed ex studenti liceali si sono trovati a tradurre la famosissima frase del De Oratore...

L'origine della crisi finanziaria statunitense

La crisi che ha interessato i mercati finanziari dei paesi maggiormente sviluppati, e che gli esperti...

Così cinque anni fa cominciava la crisi...

"Era una notte buia e tempestosa...", questo è l'incipit dell'interminabile romanzo che Snoopy...

Sabato in Poesia: Estratto di "Beppo, racconto veneziano" (George Gordon Lord Byron)

Beppo è un poemetto satirico in ottave ariostesche (secondo lo schema metrico ABABABCC), attraverso il quale Byron affronta...

29 maggio 2013

La donna e la Calabria

di Roberto Marino

In questi giorni si leggono sulle testate on line di importanti giornali come Il Fatto quotidiano o la rubrica La 27° ora del Corriere della Sera articoli piuttosto semplicisti e generalisti sulla  condizione culturale e materiale della donna in Calabria. 

L'occasione per sviluppare la riflessione sul tema viene colta dalla terribile notizia di cronaca pervenuta qualche giorno fa, riguardante la crudele e barbara esecuzione della piccola Fabiana Luzzi a Corigliano Calabro. Fatto gravissimo per la violenza consumatasi, l'età delle persone coinvolte, la modalità di esecuzione, la reazione dell'omicida post mortem. Morte che per tutte queste cose merita rispetto e anche qualcosa di più e che va tenuta distinta da una riflessione su un tema così scottante e delicato, che pure va affrontata.

Gli articoli che stanno circolando in rete ritraggono una situazione culturale in Calabria piuttosto retrograda, arcaica, che non lascia alla donna libertà di scelta in nessun ambito della propria vita. Vi si dice infatti che la donna calabrese non è libera, fin da piccola, di scegliere la scuola che preferisce - laddove le fosse concesso di poter crearsi una forma di istruzione superiore - di scegliere liberamente il proprio fidanzato, di scegliere cosa fare da grande. Vi si aggiunge poi che le donne vengono zittite, spiegando loro molto concisamente che non possono capire perché donne, dunque inferiori, e che spesso, quando le parole non fossero sufficientemente chiare, vengono accompagnate da qualche sganassone che vale più di mille discorsi. 

Il problema delle letture generaliste e semplicistiche non è tanto che sono false, quello sì, ma in un secondo momento; il vero problema è che tendono a semplificare in modo troppo sbrigativo la realtà, trasformando situazioni marginali in verità valide per tutti. Ora, attribuire atteggiamenti di padronanza spietata ad un intero spaccato sociale come il sesso maschile calabrese o alla stessa società di quella regione è una semplificazione troppo a buon mercato. Sarebbe come dire che il popolo americano è composto da soli serial killer soltanto perché sono accaduti diversi fatti gravissimi di uccisioni seriali o di stragi inspiegabili. E l'elenco potrebbe continuare.

Servirsi poi della propria provenienza regionale come garanzia della conoscenza di una realtà di fatto non è sufficiente. Non basta aver vissuto in una determinata cittadina per impostare un discorso più vasto, di carattere regionale. Non basta aver avuto tragiche esperienze personali, dirette o indirette, per descrivere un fenomeno come reale. Bisognerebbe aver vissuto in tutte le cittadine calabresi per crearsi una immagine più fedele alla realtà dei fatti. E comunque non sarebbe ancora sufficiente. Sarebbe necessario aggiungere a ciò analisi di dati statistici, ricerche, sondaggi e comunque tutto questo non basterebbe per rendere realmente giustizia di un tema così delicato e spesso scivoloso, perché anche i dati scientifici, le ricerche tengono conto di campioni pur sempre parziali e di risposte soggettive. La secolare questione di cosa è scienza (nel senso più profondo e antico di questo termine, ovvero episteme, conoscenza vera) sarebbe in discussione anche in questo caso.

Ciò detto non significa che la questione della condizione femminile non esista. In Calabria e non solo. Innanzitutto, gli ultimi fatti di cronaca ci stanno parlando di un problema di emergenza violenza, fisica e psicologica, sulla donna ahimè a tiratura nazionale. Il suicidio di Carolina a Novara per atti di cyberbullismo, il ferimento con soda caustica ai danni di una donna di 32 avvenuto a Vicenza, l'aggressione, sempre con acido, contro un'avvocatessa di Pesaro da parte del suo ex compagno, ritenuto il mandante del gesto, il ferimento a Milano di una 36 enne incinta sono campanelli d'allarme non certo di carattere regionale. 

Episodi del genere affondano le radici nella cultura della oggettualizzazione della figura della donna, che è un problema non certo da poco. E non serve andare a scomodare i programmi televisivi o le riviste scandalistiche per capire che la donna è ancora considerato un oggetto. Basta dare uno sguardo alla vita quotidiana delle nostre famiglie, laddove alla donna viene attribuito ancora un ruolo sociale ben definito - quello di angelo del focolare che deve occuparsi delle faccende di casa - sia casalinga o lavoratrice, perché così va da sempre e così deve andare. Come se ci fosse una certa naturalità nella distribuzione rigida dei compiti sociali. 

Che poi esista un problema donna in Calabria e in generale nelle regioni italiane a cultura mediterranea non si può negare, anche se va considerato più come accentuazione di un problema dalla dimensione nazionale. Sicuramente la cultura calabrese appare più chiusa rispetto a determinati valori di maggiore ascendenza nordica e tende a bollare come non idonei determinati comportamenti femminili più emancipati o "liberi", mentre contemporaneamente ne tollera, quando non ne esalta, la versione maschile. Prova ne è la categoria ancora valida di machismo o di reputazione da latin lover per i conquistatori uomini, di contro a quella di "poco di buono" utilizzata per etichettare le conquistatrici. La politica dei due pesi e due misure. Da qui però a descrivere una realtà primitiva, violenta, incivile, barbara ne passa. 

Nessuno intende negare che modi di pensare retrogradi ai limiti della disumanità esistano ancora - non si spiegherebbero comportamenti come quello dell'assassino di Fabiana - ma devono essere ridimensionati nella loro limitatezza e singolarità e comunque confinati (non giustificati né tantomeno umanamente "compresi") in contesti particolari di degrado socio-culturale. 

Le questioni macroscopiche ancora irrisolte che una regione come la Calabria vive in maniera peculiare sono economiche, sociali, culturali. Il dramma della criminalità organizzata, della mancanza di lavoro giovanile e non, dello spreco delle potenzialità di risorse umane, materiali e naturali, della mancanza di una classe dirigente seria e lungimirante, della mentalità omertosa e connivente con la 'ndrangheta, che coinvolge istituzioni e privati cittadini, del familismo amorale, che porta alla mancanza di una visione collegiale della società e all'aborto prematuro della formazione di un senso di rispetto profondo per la collettività. Questi problemi si intrecciano anche sicuramente con la questione femminile, accentuandone la drammaticità ed evidenziando l'inferiorità professionale, sociale, culturale della donna rispetto all'uomo. 

La vera sfida diventa allora analizzare seriamente tutto questo e dargli una risposta ferma e decisa, anche valorizzando il contributo che le donne possono portare per la rinascita della regione calabrese innanzitutto e poi di tutta l'Italia. La crisi che stiamo vivendo può essere un'occasione per rilanciare le forze nuove e fresche, donne innanzitutto, che rappresentano una speranza. Parliamo di tutto questo e non creiamo rappresentazioni fantasiose poco aderenti con la realtà.

25 maggio 2013

Sabato in Poesia: "I ragazzi che si amano" (Jacques Prevert)




I ragazzi che si amano si baciano in piedi
Contro le porte della notte
E i passanti che passano li segnano a dito
Ma i ragazzi che si amano
Non ci sono per nessuno
Ed è la loro ombra soltanto
Che trema nella notte
Stimolando la rabbia dei passanti
La loro rabbia il loro disprezzo le risa la loro invidia
I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno
Essi sono altrove molto più lontano della notte
Molto più in alto del giorno
Nell'abbagliante splendore del loro primo amore.

Jacques Prevert

22 maggio 2013

Come i giovani vivono la crisi

di Roberto Marino

La profonda crisi economica che stiamo vivendo contiene dei caratteri di novità che la rendono sui generis. E' la prima crisi del nuovo secolo, la prima del nuovo millennio, la prima dal dopoguerra, se si esclude la crisi petrolifera degli anni '70, la prima per l'Europa "unita". Motivazioni storiche queste, ma non mancano anche quelle più strettamente economiche e politiche. 

Nata come crisi finanziaria d'oltreoceano a causa dei mutui subprime e delle pericolose operazioni finanziarie attraverso le speculazioni sui titoli spazzatura, si è diffusa a macchia d'olio anche in Europa, intrecciandosi con i già latenti problemi che il Vecchio Continente aveva. Problemi legati alle diversità economico-finanziarie e di progettualità unitaria degli stati membri, alla debolezza politica e dei tessuti produttivi dei singoli stati, alla mancanza di politiche di crescita ed investimenti, alla carenza di un sistema bancario unificato. 

Questa crisi però porta con sé un'altra caratteristica peculiare, che è destinata a segnare non soltanto il presente, ma anche il futuro. Ovvero la percezione - che è più una consapevolezza ormai - per i giovani che il loro futuro sarà peggiore di quello dei propri padri. In particolare, il fenomeno è particolarmente accentuato in Italia. Secondo la ricerca "I giovani e la crisi", effettuata dalla Coldiretti/Swg e presentata all'Assemblea di Giovani Impresa Coldiretti, risulta che il 51% dei giovani sotto i 40 anni sarebbe pronto ad espatriare per trovare occasioni di miglioramento della propria condizione lavorativa, il 64% sarebbe pronto a cambiare città, il 71 è convinto che l'Italia non offra futuro e il 61% ritiene che in futuro la propria condizione economica sarà peggiore di quella dei propri genitori.

Quest'ultimo è un dato veramente allarmante, soprattutto perché dimostra un pessimismo giovanile che non si vedeva in Italia dal secondo dopoguerra. Anzi, guardando la storia europea, non soltanto italiana, l'ottimismo culturale delle nuove generazioni è una prospettiva che si colloca con l'affermazione del grande capitale industriale, intorno ai primi decenni dell'Ottocento. Con la grande Rivoluzione industriale e la formazione del sistema produttivo moderno, si innesca un processo di grande mobilità sociale ed economica, che porta a scommettere positivamente sul futuro. Poi sono arrivati il secondo grande conflitto mondiale e soprattutto la ricostruzione, resa possibile grazie ai programmi economico-finanziari americani, che ha innescato un grande processo di produzione e di miglioramento delle condizioni materiali degli europei - italiani compresi - che va sotto il nome di «boom economico». 

Ebbene, in tutto questo lasso di tempo gli italiani - che hanno avvertito la crescita economica in modo molto sensibile, viste le condizioni più svantaggiate di partenza rispetto agli altri Paesi europei - hanno mantenuto sempre un certo ottimismo di fondo, che oggi sembra scomparso o quantomeno sopito. Anche durante i periodi di grandi migrazioni, come quelle degli anni '50 e '60 - che non a caso erano sì esterne, ma anche rivolte verso l'interno - i giovani italiani di allora erano pieni di speranza nei confronti del futuro, mentre oggi serpeggia profonda sfiducia in primis verso il domani e successivamente nei confronti della possibilità che il proprio Paese possa garantire una vita dignitosa e, se non superiore, quantomeno pari a quella della generazione precedente. Sfiducia che li porta a ritenere che l'Italia non offra nulla, e che molto spesso li conduce - qualora non possano avere l'opportunità di lasciare la patria - di ritornare o rimanere a vivere in famiglia. 

Tutto ciò è drammatico per qualsiasi comunità civile. E' necessario invertire questa tendenza, innanzitutto attraverso politiche seriamente orientate al lavoro visto che, con una disoccupazione giovanile che si attesta intorno al 40%, fenomeni come quello appena analizzato sono ovviamente fisiologici. Al vaglio del governo, ci sono proposte per rilanciare l'occupazione - in particolare giovanile - come una possibile staffetta generazionale fondata sul part-time, revisione dell'apprendistato versione Fornero e revisione della formula di contratto a tempo determinato, con accorciamento dei tempi di pausa tra la stipula di un contratto e il successivo con lo stesso datore di lavoro. 

Questo non basta però, perché è necessario operare un buon piano di razionalizzazione e reperimento delle risorse, tagliando laddove non serve o si spende male sprecando. E' stato annunciato tante volte, ma non è mai stato fatto seriamente. Sarebbe finalmente ora, rinunciando anche alla tutela di qualche privilegio per pochi, per avere qualche diritto in più per molti. 

18 maggio 2013

Sabato in Poesia: "La marionetta" (Johnny Welch)






Se per un istante Dio dimenticasse che sono una marionetta di stoffa 
e mi regalasse un pezzo di vita, probabilmente non direi tutto quello che penso, 
ma sicuramente penserei molto a quello che dico.
Darei valore alle cose, non per quello che valgono, ma per quello che significano.
Dormirei poco, sognerei di più; capisco che per ogni minuto che chiudiamo gli occhi , 
perdiamo sessanta secondi di luce.
Mi attiverei quando gli altri si fermano, e mi sveglierei quando gli altri si addormentano.
Ascolterei quando gli altri parlano e mi godrei un buon gelato di cioccolata.

Se Dio mi regalasse un pezzo di vita, vestirei in maniera semplice, 
mi sdraierei beato al sole, lasciando allo scoperto non solo il mio corpo 
ma anche la mia anima.
Dio mio, se io avessi un cuore, 
scriverei il mio odio sul ghiaccio e aspetterei l'uscita del sole.
Dipingerei sulle stelle un sogno di Van Gogh, 
una poesia di Benedetti e una canzone di Serrat; 
sarebbe la serenata che offrirei alla luna.
Annaffierei con le mie lacrime le rose, 
per sentire il dolore delle loro spine e l'incarnato bacio dei loro petali...
Dio mio, se avessi un pezzo di vita...
non lascerei passare un solo giorno senza ricordare alla gente che le voglio bene, che l'amo. 
Convincerei ogni donna e ogni uomo che sono i miei preferiti e vivrei innamorato dell'amore.

Agli uomini dimostrerei quanto sbagliano nel pensare
che si smette di innamorarsi quando si invecchia, 
senza sapere che si invecchia quando si smette di innamorarsi.
Ad un bambino darei delle ali, ma lascerei che impari a volare da solo.
Ai vecchi insegnerei che la morte non arriva con la vecchiaia ma con la dimenticanza.

Tante cose ho imparato da voi uomini...

Ho imparato che tutto il mondo vuole vivere in cima alla montagna, 
senza sapere che la vera felicità è nella maniera di salire la scarpata.
Ho imparato che quando un neonato prende col suo piccolo pugno,
 per la prima volta, il dito di suo padre, l'ha afferrato per sempre.
Ho imparato che un uomo ha il diritto di guardare un altro uomo dall'alto 
soltanto quando devi aiutarlo ad alzarsi.
Sono tante le cose che ho potuto imparare da voi, 
anche se più di tanto non mi serviranno, 
perché quando leggerete questa lettera starò morendo, infelicemente"

Johnny Welch

16 maggio 2013

Padri vs figli seconda versione

di Roberto Marino

Il conflitto generazionale padre contro figli era stato già analizzato da Sofocle nella tragedia Edipo re. Nell'opera si profila per la prima volta uno scontro, seppure ancora inconsapevole, tra le generazioni a confronto. Nella tragedia greca però, la conflittualità è appena accennata, latente, e si mostra come l'esito violento e improvviso, quasi casuale, di uno scontro tra generazioni successive, modi di vedere il mondo e reagirvi diversi, piuttosto che tra padre e figlio.

Il tema viene ripreso, sotto una veste ancora più latente, da William Shakespeare nell'Amleto. La tragedia analizza la figura di un giovane dubbioso, infelice, tormentato, che insegue a tal punto il mito del padre da identificarvisi persino nel nome. Amleto il nome del padre, Amleto il nome del figlio. Padre che non appare mai nella tragedia, se non nei sogni, nei ricordi, nei tormenti interiori del giovane principe di Danimarca.  

La cultura europea ha quindi familiarizzato da molto tempo con la questione dello scontro generazionale tra padre e figli, tanto che nell'ultimo quarto del XIX secolo Fëdor Dostoevskji affronta nuovamente la questione, sempre dal punto di vista letterario, nel romanzo I fratelli Karamazov. Nell'opera, tutti i figli del vecchio Fëdor Pavlovic condividono l'idea che la figura del padre sia, per motivi diversi a seconda dei figli, ingombrante, eccessiva, esuberante e che, come tale, vada tolta di mezzo. Dostoevskji compie però un passo ulteriore rispetto ai suoi predecessori che si sono occupati della questione. Egli affronta il problema in termini di consapevolezza individuale. I figli del vecchio Karamazov sanno di tramare e desiderare la morte del padre e non esitano a confessarselo vicendevolmente, fino a che il figlio minore Smerdjakov non compie effettifamente il gesto.

Le stesse considerazioni saranno fatte da Sigmund Freud, ma con un taglio decisamente più scientifico, negli ultimi anni del XIX secolo e nei primi del XX. Oltre alla teorizzazione del complesso di Edipo, il medico austriaco dimostra nell'opera Totem e tabù del 1913 come l'uccisione del padre sia un gesto rituale necessario a dare il via alla civiltà nelle società primitive. Il padre infatti rappresenta tutto quell'insieme di divieti psicologici, morali, culturali che la società delle origini porta con sé e la sua eliminazione fisica, che poi viene sublimata in termini psicologici, permette un processo di maturazione ai membri più giovani delle società primitive. Questi infatti sperimentano il momento della liberazione da un'oppressione esterna e, successivamente, prendono coscienza della necessità di quel gesto ma soprattutto di quella figura superiore, interiorizzandola e dando il via alla coscienza morale e alle leggi civili che impediscano il ripetersi del gesto e favoriscano la nascita di una società regolamentata.

Prima però di trasformare queste teorie in realtà comprovata, acqua sotto i ponti ne dovrà ancora passare. E' soltanto negli anni Sessanta del Novecento - in virtù della rivoluzione culturale e di costume di quegli anni - che si manifesta, in maniera massiccia e diffusa pressoché in tutti gli strati sociali, il fenomeno della contestazione dei vecchi "matusa". Tra i motivi della grande contestazione sessantottina, oltre alla ribellione nei confronti di un mondo che non offriva, dal punto vista della loro percezione, più nulla ai giovani, c'era anche la denuncia, da parte degli stessi, dell'incapacità dei genitori di comprendere i loro sogni, i loro gusti, il loro modo di vedere il mondo, le loro aspettative. Lo scontro era però su un piano ancora valoriale, esistenziale, culturale nel senso proprio del termine.

Oggi la dialettica - in modo molto accentuato in Italia - si riapre, ma più da un punto di vista economico, professionale, materiale e solo in secondo luogo culturale. I giovani che non trovano lavoro stanno cominciando a pensare, anche perché convinti e orientati in questa direzioni da una parte della politica, che la responsabilità sia della generazione precedente, che ha avuto molti privilegi. Privilegi che hanno avuto un costo, il cui conto è stato scaricato sul futuro e di cui oggi si comincia a vedere il bilancio. 

Questa interpretazione non è poi così tanto distante dalla verità, come se ne è accorta la ministra Fornero lo scorso anno, quando ha tentato - magari un po' goffamente - di formulare una riforma delle pensioni che evitasse di aggravare ulteriormente la discrepanza tra padri e figli in termini di trattamento pensionistico. Come se ne sono accorti anche Matteo Renzi e Beppe Grillo. Il primo aprendo nel centrosinistra un dibattito piuttosto duro e accesso sulla necessità di un ricambio generazionale che porti più competenza, svecchiamento di idee e modi di gestire la cosa pubblica, seguito in questo anche da alcuni esponenti del centrodestra come il sindaco di Pavia Alessandro Cattaneo. Il secondo tirando su un movimento di società civile, trasformatosi in parte in un partito politico di tipo istituzionale, che fa dello scontro generazionale uno dei motivi principali, seppure coniugato a modo proprio anche in collegamento con le altre idee del Movimento.

La responsabilità per una situazione simile è sicuramente di quella classe dirigente (politica, industriale, manageriale) che ha preferito scaricare sul futuro - come se questo fosse qualcosa che si sarebbe verificato in un tempo indeterminato, mentre i contratti di lavoro, in particolare quelli giovanili, sono sempre più precari - i problemi della società del presente, dimostrando incapacità e indolenza nell'affrontarli. Certo, non si possono accusare i genitori singoli, che individualmente si spendono sempre al massimo per dare il meglio ai propri figli, tuttavia un discorso critico - e ci piacerebbe fosse anche autocritico - verso un certo modo di gestire la società bisogna farlo.

Ci aspetta un periodo non facile da affrontare, ma la sfida deve partire anche e soprattutto dai giovani. Crogiolarsi nel nulla non serve, né limitarsi a lamentarsi del ratto del proprio futuro. E' necessario dimostrare di saper fare e anche meglio di chi li (ci) ha preceduto, rifiutando le vecchie logiche, ma anche evitando uno scontro frontale sterile e dannoso. Si è pronti per la sfida? Al lavoro!

14 maggio 2013

Quando il sacro incontra il folklore. Analisi della celebrazione in onore di San Cataldo

di Roberto Marino


Il contatto con il sacro è sempre un'esperienza decisamente suggestiva. E' un'occasione per riflettere, contemplare l'ultraterreno (sia in senso laico che religioso), confrontarsi con la propria interiorità e farci ovviamente i conti. E' anche un modo per evadere dalla frenesia quotidiana, fermarsi un po' e prendersi del tempo, il proprio tempo. 

Quando poi il rapporto con il sacro passa per il filtro del folklore locale, allora l'esperienza si trasforma in cultura, in conoscenza delle tradizioni, in confronto con il passato, in occasione per sapere qualcosa di più su stessi, le proprie origini e per vivere diversamente il proprio futuro, magari arricchito di qualcosa in più. 

Nella cittadina di Cirò Marina - in provincia di Crotone, sulla costa ionica della Calabria - è da pochi giorni terminata la rituale festa in onore del patrono San Cataldo. Cataldo, vescovo cattolico irlandese del VII secolo, dopo un'esperienza in Terra Santa, si recò a Taranto, in seguito ad una visione mistica, allo scopo di rievangelizzare la città divenuta preda del paganesimo. La sua predicazione si diffuse in tutto il Mezzogiorno, accompagnata da una serie di miracoli. Secondo le fonti bibliografiche, il 10 maggio 1071, mentre si compivano gli scavi per la riedificazione delle fondamenta della cattedrale di Taranto, distrutta dai saraceni nel 927, fu ritrovata, grazie ad un profumo inebriante, la tomba del santo contenente una crocetta aurea, elemento abbastanza comune nei corredi funebri del periodo altomedioevale.

Ed è a questo punto che la storia-leggenda sulla vita del santo si intreccia con l'elemento culturale locale della cittadina di Cirò Marina, dove si svolgono una ricorrenza ed una celebrazione piuttosto pittoresche. Legata alla commemorazione del santo, c'è anche un tradizionale rituale che ricorda, ripercorrendolo in senso storico e geografico, l'antico e poi superato dissapore tra il comune di Cirò Marina e il limitrofo comune di Cirò. Secondo la tradizione, la statua del santo si trovava presso la chiesa di Cirò e l'allora frazione di Cirò Marina, a quel tempo in grande espansione, chiedeva la possibilità di possederla. Negatagliela, gli abitanti del luogo decisero di sottrarre la statua nottetempo, facendole percorrere una traversata via mare attraverso l'ausilio di una barca, per depositarla poi nel santuario di Madonna di Mare, detto anche Mercati Saraceni, in un'apposita chiesetta. 

Da allora, ritualmente, si ripercorre parzialmente questa traversata - oggi solo simbolica - cui si aggiunge un intenso programma di festeggiamenti, fatto di pellegrinaggio presso il santuario di Madonna di Mare, di processione per le vie del paese con una sentita partecipazione popolare. 

Il cerimoniale religioso è da sempre un modo per esorcizzare le proprie paure di fronte ad una realtà incontrollabile. Su questo tema sono state spese miliardi di parole e pagine ad opera di fini analisi condotte da antropologi, storici delle religioni, filosofi, sociologi. Autori illuminanti sono: Marcel Mauss, Émile Durkheim, Rudolph Otto, Nathan Söderblom, Gerardus van der Leeuv, Mircea Eliade, ma anche filosofi del calibro di Ludwig Feuerbach, Friedrich Nietzsche e teorici della psicanalisi come Sigmund Frued. 

La ritualizzazione del sacro è avvenuta però in modo sempre nuovo e diverso nel tempo. La religione greca concepiva il cerimoniale sacro come uno strumento per conoscere la volontà del dio su questioni militari, politiche, attraverso la consultazione di oracoli. La religione romana invece considerava il rituale come formula in grado di esorcizzare qualcosa che poteva essere ostile e che andava placato (sacer significa in origine maledetto, oltre che sacro) ottenendo così non tanto la volontà del dio rispetto ad una azione da intraprendere quanto il suo beneplacito. Per questa ragione, veniva compiuto in maniera ossessivamente precisa riducendolo tutto alla sua corretta esecuzione, tanto da suscitare la critica e l'ironia dei Greci. Il rituale cristiano è invece prima di tutto orientato ad onorare la divinità, ridimensionando drasticamente l'immagine dell'uomo, e successivamente, attraverso la preghiera, ad ottenere miglioramenti personali per la propria condizione, in una dimensione decisamente più privata. 

Qual è dunque il significato di una partecipazione così intensa ad una cerimonia religiosa, in un periodo storico segnato da profonda secolarizzazione? Sicuramente il motivo culturale di tipo tradizionale riveste un carattere importante. La festività religiosa si mescola profondamente con l'elemento etnico, tipico di una certa cultura locale votata alla identificazione con la tradizione e alla sua conservazione. Non si può trascurare poi la componente superstiziosa, che porta a temere l'ira del santo e che si traduce in chiave moderna come rispetto dell'impegno preso in seguito all'ottenimento della grazia. Infine, l'aspetto psicologicamente consolatorio che il sacro porta con sé, il quale diventa particolarmente efficace in periodi di grande instabilità e insoddisfazione esistenziali e culturali. 

Tutti questi elementi sono altamente presenti nella celebrazione della festività del Divus Cataldo, tanto che una convinzione popolare attribuisce al santo un carattere particolarmente vendicativo, da portarlo a punire severamente i fedeli che non rispettassero gli impegni presi. E la devozione popolare spinge il credente a compiere voti e persino a vestire i propri bambini - tendenza che è ritornata in voga dopo un periodo di parziale abbandono - con i paramenti sacri del santo Cataldo, allo scopo di allontanare da sé malattie ed infermità (pratica evidentemente legata storicamente alla piaga, molto diffusa in passato, dell'alta mortalità infantile), come una mostra sui "Vestitini di S. Cataldo" ha quest'anno fedelmente testimoniato e spiegato. 

Qualunque sia il movente, l'esperienza del sacro è importante, oserei dire fondamentale, per collegare l'uomo alla sua dimensione meta-fisica. Una realtà che gli antichi conoscevano certamente meglio di noi e che noi tendiamo troppo spesso a sottovalutare, presi come siamo da mille impegni quotidiani.

12 maggio 2013

Allarme violenza

di Roberto Marino

Sempre di più l'Italia sembra sconvolta da una violenza inarrestabile. Su uomini, su donne, su sconosciuti e inermi passanti di strada cittadina, su immigrati sfruttati come bestie nei faticosi lavori dei campi, senza una paga che possa dirsi dignitosa e un posto dove dormire degno di chiamarsi tale. Non c'è neppure differenza geografica nella violenza, che coinvolge il Nord, il Centro e il Sud. 

L'episodio più eclatante dell'intera settimana è quello che riguarda il ferimento e l'uccisione di passanti, avvenuto ieri mattina tra le 5.30 e le 6.30 circa nel quartiere di Niguarda, a nord di Milano, ad opera di un immigrato ghanese di 31 anni. L'uomo è sceso in strada brandendo un piccone ed ha cominciato ad inseguire le persone che si trovavano a tiro, colpendone cinque. Di questi, un uomo di 40 anni è morto per le ferite riportate; gli altri sono feriti, di cui qualcuno in modo grave. 

E ancora, nei giorni scorsi si sono verificati altri atti di violenza come il ferimento con soda caustica della donna di 32 anni, compiuto a Vicenza ad opera di due uomini che l'avrebbero obbligata a versarsi addosso il liquido urticante. O come il caso dell'avvocatessa di Pesaro, aggredita anche lei con l'acido probabilmente dal suo ex compagno ritenuto mandante del gesto. Ed infine non bisogna dimenticare i casi dell'infermiere sfregiato a Roma il 30 aprile - forse dall'ex fidanzata - mentre aspettava il treno alla stazione di Tor Pignattara e della donna 36enne incinta, colpita anch'essa da un getto di acido a Milano.

Un altro grave episodio di violenza, magari non direttamente fisica, è quello che riguarda lo sfruttamento degli immigrati africani a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria. Proprio ieri i carabinieri hanno arrestato tre italiani e un immigrato del Burkina Faso, accusati di violazione della Legge 148 del 2011 (art. 603 bis del codice penale) che riguarda il reato di «Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro». I quattro avrebbero cioè reclutato illecitamente, attraverso lo strumento del caporalato, e fatto lavorare in condizioni disumane alcuni immigrati africani come braccianti agricoli. La storia si ripete, sia di lungo che di breve corso. La prima ricorda quella della vecchia servitù della gleba, ripresentata in forme nuove; la seconda è la stessa di 3 anni fa con gli stessi episodi di sfruttamento disumano che accaddero proprio a Rosarno.

Riuscire a trovare un filo conduttore unico tra fatti simili nella forma, ma diversi nella sostanza è sciocco oltre che vano. Nel calderone delle cause si potrebbe infilare qualsiasi cosa: dalla follia omicida latente alla rabbia per una condizione esistenziale difficile, dalla gelosia incontenibile, che smette di essere passione per diventare bisogno esclusivo di possesso, al desiderio di incunearsi nei meccanismi di controllo e potere di certe aree depresse del Mezzogiorno italiano. Eppure qualcosa che, in fondo, deve legare tutta questa violenza c'è. Ci deve essere. 

Sarà che forse stiamo pagando lo scotto di una società stressante e dinamica, dannatamente opulenta e piena di opportunità, scintillante, ammaliante, effimera, evoluta, ma ancora ricca di contraddizioni evidenti e spesso di retaggi culturali arcaici. Sarà che forse ci siamo spinti troppo in là con le nostre forze e ciò ha provocato una grande illusione, una bolla fiabesca che adesso rischia di scoppiare e lasciare solo l'amarezza di una disillusione cui non si riesce a far fronte. Sarà questo, forse. O sarà semplicemente che noi uomini d'oggi non siamo all'altezza di un mondo costruito da chi ci ha preceduto. O che forse questo mondo è sempre rimasto solo nella nostra testa o nel nostro cuore. O ancora che i mezzi di comunicazione danno eccessivo risalto - oggi più che mai, in cui tutto fa notizia e in particolar modo eventi seriali di violenza che nutrono un certo gusto sensazionalistico portato al sadismo - a episodi comuni, normali in una grande comunità civile, quasi fisiologici. Sarà questo o sarà altro, chissà...

Quello che invece è certo è che le nostre città, ma anche le nostre campagne, stanno diventando sempre più insicure, invivibili, violente al limite del sopportabile. E' una constatazione allarmante, ma purtroppo reale. Sinceramente parlando, non credo ci siano ricette precostituite o programmi da seguire per cercare di arginare il fenomeno e ci si trova davvero in una sensazione di impotenza dinnanzi ad episodi come quelli citati. Quell'impotenza che porta a guardarsi continuamente non soltanto più le spalle, ma anche la fronte. Non solo dall'estraneo, lo sconosciuto, il passante, ma anche dal conoscente, l'amico e persino dal familiare. 

E' triste, decisamente troppo triste dover vivere continuamente con la paura, l'angoscia, la diffidenza nei confronti di tutti, in particolare in una società così orientata alla comunicazione, allo scambio, alla conoscenza, alla diversità come la nostra. La sensazione è quella che stiamo davvero sprecando un'opportunità. Una grande opportunità.    

11 maggio 2013

Sabato in Poesia: "Tempo" (Ada Negri)




Giorno per giorno, anno per anno, il tempo
nostro cammina! L'ora ch'è sì lenta
al desiderio, tu la tocchi infine
con le tue mani; e quasi a te non credi,
tanta è la gioia: l'ora che giammai
affrontare vorresti, a cauto passo
ti s'accosta e t'afferra - e nulla al mondo
da lei ti salva. Non è sorta l'alba
che piombata è la notte; e già la notte
cede al sol che ritorna, e via ne porta
la ruota insonne. Ma non v'è momento
che non gravi su noi con la potenza
dei secoli; e la vita ha in ogni battito
la tremenda misura dell'eterno.

Ada Negri

10 maggio 2013

Questione Imu

di Roberto Marino

Il nuovo governo a trazione integrale (Pd, Pdl, Scelta Civica) rischia di fare il primo scivolone. E questo nonostante avrebbe dovuto rappresentare il governo dei sogni, così come il premier Enrico Letta aveva lasciato intendere nei giorni scorsi senza troppe velature. La buccia di banana su cui potrebbe inciampare si chiama Imu.

Secondo quanto prevede il decreto Salva Italia, varato lo scorso anno dal governo Monti, anche a giungo di quest'anno si dovrebbe pagare la prima rata dell'imposta sugli immobili su abitazioni di residenza, ulteriori case di proprietà, immobili ad uso commerciale e produttivo.

Vista la grave situazione economico-finanziaria delle famiglie però e vista soprattutto la grande pressione che il Pdl ha fatto e sta facendo sulla necessità dell'abolizione della tassa - pena lo scioglimento dell'accordo di maggioranza che tiene in piedi anche il governo - e visto ancora il clamore mediatico-elettorale sollevato sull'Imu, il governo ha quasi deciso - nei prossimi giorni dovrebbe arrivare il decreto ufficiale - di rimandare il pagamento dell'acconto della tassa sulla prima casa a settembre. Nel frattempo, l'esecutivo e il parlamento si riserveranno il margine per trovare una soluzione legislativa al problema dell'intera tassazione sugli immobili. Come dire, un po' d'aria per poter respirare.

A soffocare però saranno le attività produttive, che dovranno comunque pagare l'importo della prima rata e addirittura con maggiorazioni rispetto allo scorso anno, in alcuni casi dell' 8% in più (fonte Tg2). 

Dal Ministero dell'Economia fanno sapere che la mancata riscossione del gettito non un avrà impatto sui conti dello Stato e ciò si capisce bene perché l'intero importo sarebbe dovuto finire nelle casse dei comuni, i quali riceveranno una copertura attraverso un prestito della Cassa depositi e prestiti. Questi soldi dovranno poi essere restituiti con gli interessi, ragion per cui gli enti locali saranno costretti ad innalzare le aliquote (possono farlo) su coloro che non beneficeranno del momentaneo stop. Le attività produttive appunto, come aziende, società, esercizi commerciali.

Una soluzione non proprio congeniale se si pensa che lo scopo dovrebbe essere quello di facilitare la ripresa economica in un momento di crisi. L'aggravamento della tassa sulle attività produttive si tradurrà, come si può ben capire, in minore produzione, riduzione del numero dei dipendenti, in alcuni casi ulteriore chiusura dei attività, incapaci di far fronte ad un ulteriore aggravio fiscale, diminuzione dei consumi.  La diminuzione dei consumi potrà essere in parte coperta - ma bisognerebbe avere dei dati precisi per capire se ciò sarò possibile, dati di cui si potrà disporre soltanto più avanti - con un aumento dei prezzi, che tuttavia si scaricherà su tutte le fasce di consumatori. I più colpiti saranno ovviamente i ceti sociali più deboli.

Infine, il provvedimento di slittamento della prima rata dell'Imu ha una portata trasversale sui contribuenti, il che vuol dire che le temporanee esenzioni non saranno legate al reddito o al valore del bene, bensì coinvolgeranno indistintamente tutte le fasce sociali, basse, medie e alte. Senza contare tutti gli effetti distorsivi, come ad esempio l'obbligo di pagamento per tutti coloro che possiedono un solo immobile (in teoria beneficiari della sospensione) ma non di residenza, perché residenti in un'altra città per motivi di lavoro o altro. Tutti costoro saranno obbligati non soltanto a pagare la prima rata, ma a subire una tassazione corrispondente a quella per le seconde abitazioni.

Insomma, un provvedimento, se ci sarà e se in questi termini, che vede allontanarsi sempre di più non solo la ripresa economica, ma anche l'equità e la giustizia sociali.

09 maggio 2013

Il coraggio di essere normali. In memoria di Peppino Impastato.

di Roberto Marino

Oggi è il 9 maggio e in questo giorno di 35 anni fa moriva Peppino Impastato, giornalista, conduttore radiofonico, attivista e politico italiano, ucciso dalla mafia a soli 30 anni.  La sua  storia è ormai diventata celeberrima, ed ha raggiunto ed entusiasmato il grande pubblico anche grazie alla diffusione avvenuta attraverso la ricostruzione compiuta dal regista Marco Tullio Giordana nel film I cento passi, così come grazie alla canzone I cento passi, incisa dai Modena City Ramblers in corrispondenza al film.

La storia del giovane Peppino ha commosso e spinto l'Italia a reagire, tanto che negli anni sono state portate avanti numerose iniziative. Nel 2009 è stata posta una targa commemorativa nella biblioteca comunale della cittadina di Ponteranica, suscitando anche molte polemiche in area leghista, che portarono alcuni ragazzi di Bergamo ad inaugurare una biblioteca popolare a Peppino. Nel maggio di tre anni fa, al termine della consueta cerimonia commemorativa in ricordo del giovane Impastato, ci fu la simbolica consegna delle chiavi di casa del boss di Cinisi, Gaetano Badalamenti, zio di Peppino, al sindaco del piccolo paese, il quale le consegnò a sua volta le all'Associazione Culturale Peppino Impastato. Ancora, nel 2012 la casa di Peppino viene riconosciuta bene culturale come "testimonianza della storia collettiva e per la sua valenza simbolica di esempio di civiltà e di lotta alla mafia". 

Tutte azioni celebrative, doverose, ovviamente necessarie - non soltanto in senso istituzionale, ma anche morale - e forse, nella maggior parte dei casi, anche sentite. Ma appunto soltanto manifestazioni di ricordo. Questo non significa che non debbano essere fatte; è ovvio che una comunità, uno Stato, una società debbano rispondere anche in maniera simbolica e culturale. Quello che purtroppo non si riesce ad evitare in situazioni come queste è la trasformazione in miti dei personaggi che si sono impegnati concretamente nella lotta alla mafia. 

La mitizzazione è un fenomeno abbastanza articolato, che coinvolge diverse realtà. Nel mondo iper-comunicativo in cui viviamo, i media sono direttamente coinvolti in questa operazione per cui, grazie alla rapida diffusione di notizie e all'accurato lavoro di manipolazione (che non significa modifica del contenuto di un evento o una notizia, bensì lavoro sul suo contorno in termini di presentazione e di impatto emotivo) il processo di divinizzazione di un fatto, dell'immagine di un personaggio si compie. 

La mitizzazione di un personaggio rischia però paradossalmente di offuscare il messaggio che egli ha voluto mandare, portare avanti, dimostrare con il suo esempio. Infatti, se da una parte il mito porta all'ammirazione, alla dichiarazione di lode nei suoi confronti e in qualche caso anche all'emulazione, dall'altra parte (ed è quella quantitativamente più numerosa e dunque più rilevante) il mito spinge in una direzione di deresponsabilizzazione, di assoluzione morale. Il mito viene ammirato, esaltato, venerato ma, proprio perché considerato un eroe, un personaggio dalle doti e qualità superiori rispetto agli altri uomini, viene relegato in una sfera quasi ultramondana e il suo esempio per nulla imitabile dagli uomini cosiddetti normali, comuni.

Lo sapeva bene Giovanni Falcone che non ha mai considerato se stesso un eroe e che da eroe non voleva morire né come eroe essere ricordato. Egli diceva - parlando dell'impegno che lo Stato come organismo istituzionale deve mostrare nella lotta alla mafia - che «Quando esistono degli organismi collettivi, quando la lotta non è concentrata o simboleggiata da una persona sola, allora la mafia ci pensa due volte prima di uccidere». E' questo il senso dell'impegno che uomini socialmente e culturalmente attivi come Giuseppe Impastato, e normali servitori dello Stato come Falcone, Borsellino, Rocco Chinnici, il generale Dalla Chiesa, che ricorderemo ed osanneremo retoricamente fra qualche settimana o qualche mese, hanno profuso nella lotta alla mafia, pagando con la vita la loro "impudenza". 

Uomini normali, che avevano un coraggio normale che tutti, nel piccolo o nel grande dovremmo avere. Coraggio che ci sembra eroico soltanto se visto in controluce rispetto alla nostra incapacità di comprendere il significato profondo del potere della criminalità mafiosa e gli effetti devastanti che ha sulla nostra società. Siamo noi uomini "comuni" infatti ad avere un senso di collettività al di sotto della media, che non ci permette di sentire il puzzo insopportabile della criminalità e a non vedere lo scempio che ha creato. Ricordiamoci di tutto questo oggi, ricordiamocene il 23 maggio, il 19 luglio, il 29 luglio, il 3 settembre e così ogni giorno dell'anno. Ricordiamocene e riflettiamo.

04 maggio 2013

Sabato in Poesia: "La fontana malata" (Aldo Palazzeschi)



Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
clocchette,
chchch......
E' giu',
nel cortile,
la povera
fontana
malata;
che spasimo!
sentirla
tossire.
Tossisce,
tossisce,
un poco
si tace....
di nuovo.
tossisce.
Mia povera
fontana,
il male
che hai
il cuore
mi preme.
Si tace,
non getta
piu' nulla.
Si tace,
non s'ode
rumore
di sorta
che forse... 
che forse
sia morta? 
Orrore
Ah! no.
Rieccola,
ancora
tossisce,
Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
chchch....
La tisi
l' uccide.
Dio santo,
quel suo
eterno
tossire
mi fa
morire,
un poco
va bene,
ma tanto....
Che lagno!
Ma Habel!
Vittoria!
Andate,
correte,
chiudete
la fonte,
mi uccide       
quel suo
eterno  tossire!
Andate,
mettete
qualcosa
per farla
finire,
magari...
magari
morire.
Madonna!
Gesù!
Non più!
Non più.
Mia povera
fontana,
col male
che hai,
finisci
vedrai,
che uccidi
me pure.
Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
clocchete,
chchch...    

Aldo Palazzeschi
(1909)

02 maggio 2013

I bambini e le armi negli USA. Apologia della violenza.

di Roberto Marino

In un famosissimo passo del Vangelo, Gesù Cristo dice: «Lasciate che i pargoli vengano a me». Questa stessa frase sembra essere stata presa in prestito da una società americana produttrice di armi, la Keystone sporting arms, la quale si rivolge ai più piccoli fabbricando piccoli fucili, il Little crickett, dotati di colori accattivanti, distinzioni cromatiche per maschi e femmine, e perfino ricorrendo a slogan come: «My first rifle» - Il mio primo fucile - e ad un apposito design maneggevole. 

Come sempre accade però, si grida allo scandalo soltanto dopo che la tragedia si è verificata.  Ed è ciò che è accaduto proprio ieri, quando a Burkesville, in Kentucky, un bambino di soli cinque anni ha ucciso la sorellina di due, Caroline Starks, mentre entrambi giocavano in soggiorno, appunto con un fucile. Formalmente avrebbe dovuto essere un giocattolo, tuttavia l'effetto può tranquillamente essere quello di un fucile vero e proprio in grado di sparare pallini di metallo calibro 22, sufficienti ad uccidere. 

La massiccia diffusione delle armi negli Stati Uniti, come si sa, è un problema difficilmente risolvibile visto il grande potere economico e politico che le aziende produttrici possiedono. Da qui però a penetrare persino nel mondo innocente e indifeso dei bambini ne passa. Eppure la Crickett non è l'unica azienda a dedicare un apposito spazio ai più piccoli. Sul sito internet della Nra si possono vedere bambini e ragazzini che impugnano soddisfatti vere e proprie armi con tanto di frasi in sovraimpressione che incitano ad un utilizzo "regolato". 

Le leggi americane, in realtà, stabiliscono che per accedere al mercato delle armi è necessario almeno essere maggiorenni e rivolgersi ad un rivenditore autorizzato; tuttavia tramite internet è decisamente molto più facile raggiungere indirettamente l'oggetto del desiderio, in quanto lo si può far spedire direttamente ad un intermediario locale, generalmente un rivenditore autorizzato. Inoltre, i siti internet delle case produttrici (come la Nra) persuadono i genitori ad "educare" i ragazzini all'uso controllato e consapevole delle armi da fuoco.    

I dati pubblicati dal Journal of American Medical Association sono decisamente allarmanti. Dal dossier presente sulla testata, risulta che nel 2009 le unità di pronto soccorso di Denver e Aurora hanno assistito 129 bambini feriti da armi da fuoco. Inoltre, come risulta dal sito www.ichw.or/facts-about-kids-and-gun-violence, 2811 minorenni statunitensi sono stati uccisi da pistole e fucili e di questi 800 si sono suicidati, mentre 114 sono morti in maniera accidentale. 

Riuscire a contrastare un mercato, con la sua pervasività, che nel 2011 negli Stati Uniti ha fatto totalizzare 85 miliardi di dollari e lo scorso anno 66 - fonte New York Times - alle aziende produttrici di armi è tutt'altro facile. Se aggiungiamo poi che la campagna elettorale americana è quasi interamente finanziata dai grandi colossi industriali, capiamo bene come la politica sia davvero impotente nell'arginare un fenomeno così preoccupante. 

Una cosa comunque è certa: i bambini devono ritornare a giocare nei parchi, sulle altalene, sulle giostre, a nascondino, a pallone, con le bambole, le automobiline, certamente non con i fucili.