Sabato in Poesia: "Vendemmia" di Marino Moretti

Vendemmia di Marino Moretti è una poesia tratta dalla raccolta Sentimento: pensieri, poesie...

Roma capitale d'Italia

Chissà quanti studenti ed ex studenti liceali si sono trovati a tradurre la famosissima frase del De Oratore...

L'origine della crisi finanziaria statunitense

La crisi che ha interessato i mercati finanziari dei paesi maggiormente sviluppati, e che gli esperti...

Così cinque anni fa cominciava la crisi...

"Era una notte buia e tempestosa...", questo è l'incipit dell'interminabile romanzo che Snoopy...

Sabato in Poesia: Estratto di "Beppo, racconto veneziano" (George Gordon Lord Byron)

Beppo è un poemetto satirico in ottave ariostesche (secondo lo schema metrico ABABABCC), attraverso il quale Byron affronta...

30 marzo 2013

Forse solo un "dio" ci può salvare

di Roberto Marino


Alea iacta est. Il dado è tratto o quasi. Il presidente Napolitano si è espresso dopo giorni di indugi, osservazione dell'evolversi della situazione e una notte - quella appena trascorsa - passata a riflettere circa il da farsi ed evidentemente il da dirsi. Sì, perché è determinante agire (su tutti i fronti) ma è importante anche comunicare e saperlo fare bene, onde evitare fraintendimenti o peggioramenti delle condizioni in cui ci troviamo.

Ancora una volta, Napolitano ha mostrato saggezza, responsabilità, sensibilità, intelligenza. Come le sue parole di oggi hanno testimoniato chiaramente, è necessario, in questo momento, rassicurare i mercati nazionali ed internazionali e gli altri Paesi, inviando, per quanto possibile, messaggi di solidità e affidabilità. Il Presidente ha infatti dichiarato più volte che continuerà ad esercitare il suo mandato fino all'ultimo giorno e a «concorrere almeno a creare condizioni più favorevoli, allo scopo di sbloccare una situazione politica, irrigidita tra posizioni inconciliabili». Inoltre, ha ricordato che l'Italia ha ancora un governo in carica, che si occuperà delle questioni più urgenti.

Dopo la comunicazione viene però l'azione. Se la strada di Bersani era stretta, quella di Napolitano rischia di essere un vicolo, che tuttavia può portare, se non proprio su una via principale o dritti per la tangenziale, quantomeno in una piazzetta. Questa prende il nome di elaborazione «di precise proposte programmatiche». Per questa realizzazione, il Presidente nominerà «due gruppi ristretti di personalità», prelevati dalle forze politiche (Pd e Pdl?), che già a partire da martedì si riuniranno per cominciare a lavorare in questa direzione.

Dalla piazzetta però bisognerà poi ripartire attraverso un altro vicolo - forse ancora più stretto - per trovare le convergenze in Parlamento. Non tanto sull'approvazione dei punti del programma, su cui le forze politiche si accorderanno verosimilmente durante i lavori della "commissione", quanto sulla fiducia da dare ad una nuova maggioranza e a quali costi.

C'è poi l'incognita di chi guiderà la futura maggioranza e il nascituro governo. Cosa farà Napolitano in questa direzione? Scongelerà l'ipotesi Bersani momentaneamente ibernata? Affiderà alla commissione l'incarico di scegliere un altro nome? Ancora non sappiamo. Del resto è presto e anche infruttuoso fare ipotesi (si veda come si siano rivelate infondate le congetture giornalistiche circa un possibile ritiro anticipato del Capo dello Stato) perché la situazione è ancora troppo concitata e confusa.   

Infine, il Presidente ha ribadito la sua «fiducia - ma è più un invito caldamente consigliato - nella possibilità di responsabile superamento del momento cruciale che l'Italia attraversa». Come a dire alle forze politiche: «Nei limiti dei miei poteri, più di questo non posso. Ora tocca a voi!». 

Ciao, Enzo.


In questo giorno di lutto per la scomparsa del grande cantautore, cabarettista, artista a tutto tondo, medico e molto altro ancora Enzo Jannacci, "Accendiamo le idee!", con i suoi autori e - mi permetto di aggiungere anche - con i suoi lettori e commentatori, vuole esprimere il  proprio ricordo nei suoi confronti.

In particolare, mi permetto di lasciare le parole allo stesso grande Jannacci:

http://youtu.be/zAWKuoTc3zs

29 marzo 2013

Quando il gatto non c'è, i topi ballano...

di Roberto Marino


Voglio raccontare una storia. Niente di avventuroso, avvincente, sia chiaro. E' la vecchia storia del gatto e dei topi, opportunamente modernizzata e riadattata un po' a quanto sta avvenendo.

C'era una volta un gatto di nome Responsabilità, che viveva in una bella casa chiamata Parlamento. Ma non era solo, bensì aveva come coinquilini tanti piccoli topolini, chiamati Parlamentari. Era temuto e rispettato dai topini per via della sua grande forza e così in casa c'era un senso di equilibrio ed ordine. 

Si da il caso che un giorno, misteriosamente, il gatto partì (temporaneamente?) dalla casa senza avvisare i suoi coinquilini. Questi non ebbero bisogno di annunci, perché immediatamente si accorsero dell'assenza del gatto. In casa infatti si respirava un senso di libertà nuovo, mai visto prima e i topini non tardarono ad approfittarne per organizzare feste e darsi alla pazza gioia. Un topo con la cravatta rossa, che vantava diritti di governo sugli altri, si attribuì la facoltà di stabilire una specie di piano di organizzazione delle attività, sostituendosi a Responsabilità. Si recò dal vecchio topo saggio - che viveva in un luogo contiguo alla casa - il quale gli consigliò di verificare il numero di sostenitori del suo piano. Gli altri topi però non avevano nessuna intenzione di ascoltare il topo dalla cravatta rossa, negandogli qualsiasi autorevolezza e leadership. C'era chi voleva ballare e cantare, chi voleva mangiare a volontà, etc., mentre c'erano da gestire le altre attività della casa: sbrigare le faccende, distribuire compensi e alimenti agli altri abitanti di tutta la proprietà, produttori di quelle stesse cose di cui i topi volevano cibarsi, far ripartire le altre attività di produzione della proprietà.

Mentre i topi più autorevoli discutevano - quello con la cravatta rossa si scontrava con il topo con la cravatta azzurra - gli altri si scatenavano. Gozzovigliavano, litigavano su chi dovesse avere di più e perché, lasciando intorno residui di formaggio, salame, frutta, verdura e latte e tutto ciò che c'era in frigo. In questa situazione, la casa andava a rotoli e il vecchio topo saggio, non avendo il potere per intervenire direttamente, decise, dopo tanti indugi, in attesa che tornasse il gatto...

Ecco, a questo punto del sogno mi sono svegliato. Non capendo bene se fosse il frutto della mia immaginazione onirica, che ancora lasciava qualche traccia ben visibile nella mia coscienza, oppure se c'era qualcosa di vero e riscontrabile da qualche parte nella realtà, ho acceso la tv e improvvisamente ho capito. Non era solo un sogno.

28 marzo 2013

La crisi cipriota: che diavolo è successo? (Parte I)

di Tommaso Andreoli

Alzi la mano chi fra voi è in grado di fare il resoconto, quantomeno per grandi linee, di ciò che sta accadendo da qualche settimana a questa parte in quella sperduta isola di nome Cipro, situata ai confini dell’Europa. “Lontana dagli occhi, lontana dal cuore” – qualcuno potrebbe dire. “Godetevi lo bello mare e stateve buoni” – qualchedun altro aggiungerebbe. E invece no. Di Cipro e della sorte dei suoi abitanti a noi ci importa. Eccome se ci importa, perbacco! Sapete perché? Anche loro fanno parte dell’Unione Europea. Pertanto, nel bene o nel male (in questo caso la seconda) i fattacci loro sono anche fattacci nostri.
In quel che segue, mi accingerò, cercando di non sbagliare (e se lo faccio, correggetemi), a fare il punto di quanto è successo in quella lontana – geograficamente ma non economicamente e finanziariamente – isola mediterranea. 

L’identikit cipriota 
Con i suoi 9.250 km2, Cipro è la terza isola per estensione fra quelle dell’azzurro Mediterraneo dopo le italiche Sicilia e Sardegna, e, secondo la leggenda, luogo di nascita di Afrodite, dea dell’amore e della bellezza. Insomma, una perla incastonata nel mare vicino al Medio Oriente, che però oggi si vede funestata dalle ire del dio Finanza, al quale – ahi lei – deve rendere conto per i peccatucci (poi mica tanto piccoli!) commessi dai suoi rappresentanti e dalle autorità di vigilanza in un passato non troppo lontano. 
Diciamo subito che la Repubblica cipriota (la parte sud dell’isola), ormai nel club dei Paesi dell’Unione Europea dal lontano maggio 2004, ha adottato come valuta l’euro cinque anni fa, a partire dal primo giorno del 2008. Nonostante il suo Pil (Prodotto interno lordo, ossia il valore dei beni e servizi finali prodotti nell’economia nel corso di un anno) pesi solamente lo 0,18% dell’Eurozona (dunque poco se riferito a quello greco che si attesta intorno al 3%), Cipro tiene in ansia tutte le altre economie di Eurolandia, perché, si sa, basta anche una piccolissima infezione per ammalarsi seriamente. 
Vediamo pertanto di capire come questa infezione è nata e i motivi che l’hanno indotta a ritenerla molto pericolosa. 

Segnali di pericolo 
Lo dicono i numeri: tanto più il sistema bancario risulta grande, tanto maggiore è il rischio per gli Stati di vedere crollare a picco la loro economia. Basta dare un’occhiata ai quattro casi di crisi precedenti a quella cipriota per capire le cose come stanno: 
• l’Irlanda ha banche più grandi 5,3 volte l’ammontare del Pil; 
• il Portogallo 3,7; 
• la Grecia 2,6; 
• la Spagna 4,3. 
In questa speciale classifica, tra i 17 membri dell’Eurozona Cipro si posiziona al terzo posto con un moltiplicatore di 7,8, dietro a Lussemburgo e Malta, il cui rapporto tra attivi bancari e Pil risulta rispettivamente pari a 19,8 e 8. Per ora in queste ultime la situazione sembra reggere per via della loro buona salute del sistema bancario e dei conti pubblici, tuttavia il Fondo monetario internazionale ha già segnalato un annetto fa alle autorità dei due Paesi la possibilità che la loro stabilità finanziaria possa essere minata dall’intensificarsi della crisi europea. La preoccupazione che quanto già avvenuto nell’isola cipriota possa ripetersi è grande: si vuole cioè evitare di incappare negli stessi errori per l’ennesima volta, evidenziando il fatto che un eventuale dissesto non sarebbe gestibile autonomamente, vista la sproporzione tra sistema bancario ed economia reale. Dunque occhio a non sottovalutare gli avvertimenti. 
E Cipro? Cosa diavolo è successo Cipro? Tu quoque, Cipro, come hai potuto cacciarti in guai così grossi? 

All’origine della crisi 
Cattiva supervisione bancaria. È con queste parole che si potrebbe sintetizzare quanto avvenuto. Le autorità dell’isola hanno infatti permesso alle loro banche di crescere fino a divenire giganti tali da non rendersi più conto che in caso di barcollamento non avrebbero potuto più trovare un appoggio stabile sul quale sorreggersi per continuare a farcela da sole. Si sono così concesse il lusso di prestare ingenti somme di denaro alla Grecia e di esporsi, inoltre, al rischio altissimo legato ai titoli di Stato greci (tramutatisi in junk bond), investendo malamente ampi pezzi dei loro patrimoni. Mosse finanziarie che sono costate ben l’80% di quanto impiegato. 
E come se tutto ciò non bastasse, per molto tempo le medesime banche cipriote hanno lasciato confluire nei loro forzieri i miliardi di euro di oligarchi russi e di ricchi investitori del vicino Medio Oriente, da sempre alla ricerca di paradisi (fiscali) come quello cipriota, senza porsi troppe domande sul cattivo odore di riciclaggio emanato da questi capitali. Sebbene con la crisi del debito gran parte di questi investitori (soprattutto russi) si siano decisi a far fare marcia indietro ai loro denari, Cipro e la Russia sono riuscite ad accordarsi su un finanziamento da 2,5 miliardi di euro, che non sono però bastati all’isola per ripianare il conto, tanto che si è stati costretti a rivolgersi più a oriente, in Cina, e chiedere un altro miliardo e mezzo. 
In realtà la situazione è risultata così grave che il governo cipriota non si è più potuto nascondere, tentare altri escamotage, o chiedere aiuti che non fossero quelli europei: il 15 e 16 giugno scorsi, Nicosia ha dovuto ufficialmente bussare alla porta dell’Ue e, dalle cronache dei quotidiani economici-finanziari, si apprende che oggi di miliardi di euro ne serviranno quasi 16.

26 marzo 2013

Confronto a distanza

di Roberto Marino

Il periodo in cui in guerra si facevano battaglie campali corpo a corpo è passato da un pezzo. Ormai la guerra è diventata, da almeno un secolo a questa parte, un evento che si svolge sempre più a distanza. La stessa cosa vale, nell'era digitale, per i confronti tra personaggi che ricoprono cariche pubbliche o che svolgono ruoli sociali, divenuti sempre più battaglie o addirittura vere e proprie guerre. Questo è sicuramente il dato più evidente che emerge dal confronto-scontro che si è verificato in questi giorni tra il giornalista e vicedirettore di Il fatto quotidiano, Marco Travaglio, e il neo presidente del Senato, Pietro Grasso. 

Lo scontro era stato aperto dal giornalista giovedì sera durante il suo consueto intervento all'interno della trasmissione Servizio Pubblico. In quel frangente, Travaglio aveva accusato Grasso di essere stato avvantaggiato dal potere politico (di centro-destra) attraverso alcune leggi contra personam - la persona in questione sarebbe Gian Carlo Caselli - che avrebbero impedito a Caselli di succedere a Piero Luigi Vigna alla guida della Procura Nazionale Antimafia, spianando invece la strada a Grasso. Travaglio ha continuato dicendo che, durante il suo mandato di capo della Procura di Palermo, Grasso avrebbe adottato alcuni comportamenti eccessivamente morbidi con indagati speciali come Andreotti, rifiutando di firmare l'appello per la riapertura del processo che aveva assolto il pluri presidente del Consiglio in primo grado. Infine, il vicedirettore di Il fatto ha sostenuto che Grasso ha ricevuto plausi dal centro-destra berlusconiano, basando anche su questa presunta vicinanza le sue accuse di collusione e contiguità col potere politico. 

Durante la trasmissione di Santoro, ad un certo punto, è intervenuto il neo presidente Grasso, che ha definito infamanti le dichiarazioni di Travaglio - oltre che per gli argomenti delle questioni anche e soprattutto perché fatte senza contraddittorio - invitando il giornalista in una trasmissione terza per confrontarsi, ed eventualmente scontrarsi, con dati alla mano. Travaglio ha accettato, ma poi, quando si è presentata l'occasione, ha dichiarato alla trasmissione di Radio2 Un giorno da pecora di non volersi recare nella trasmissione televisiva Piazza Pulita di Corrado Formigli, in onda ieri sera sempre su La7, perché il conduttore e Grasso si sarebbero messi d'accordo alle sue spalle nottetempo. «Se uno vuole rettificare una cosa su un giornale, la rettifica si fa su quel giornale. Lo stesso vale per una trasmissione televisiva. [...] Questo è l'ABC delle regole del giornalismo, evidentemente qualcuno non le conosce: peggio per lui». Queste le dichiarazioni del giornalista, che si schermisce dal partecipare per «motivi igienici». 

Ieri sera l'epilogo della difesa di Grasso, che ha risposto alle questioni sollevate da Travaglio, anche sulla base delle sollecitazioni da parte delle domande del conduttore. A parte le risposte, che possono essere più o meno convincenti (tutto è interpretabile e ciascuno crea la propria opinione sulla base dei fatti riportati) il punto su cui focalizzare l'attenzione potrebbe essere anche un altro: l'uso sempre più strumentale dei mezzi comunicativi. Visto il grande potere di attrazione che possiedono i mass media, sia di nuova che di consolidata generazione, si tende sempre più a servirsene per dichiarazioni shock, spesso fatte per attirare l'attenzione, per suscitare una reazione, per raggiungere comunque un obiettivo. 


Travaglio, si sa, è espressione di un certo giornalismo militante e decisamente radicale (che sempre più spesso ricorda un certo grillismo, ma che non per questo dovrebbe tacere), provocatorio, anche se in questo caso poco onorevole. Avrebbe potuto e anzi dovuto presentarsi in studio a suffragare le proprie tesi invece di sottrarsi al contraddittorio. Esprimere timori nei confronti di un presunto modo poco pulito di gestire un dibattito non può risultare giustificante. Così come preferire il confrontarsi in un luogo "amico", favorevole e familiare, in cui si può contare sul sostegno-intervento del conduttore, sul "calore" del pubblico. Rispondere per iscritto su un giornale, dove si può essere facilitati dalla tranquillità e dalla solitudine che conferiscono maggiore efficacia alle risposte, è un po' diverso dal trovarsi in televisione, sottoposti ad una serie di pressioni. Persino Berlusconi durante la campagna elettorale - certamente facendo i propri calcoli a dovere - ha avuto il coraggio o l'arditezza di presentarsi come ospite nel programma di Santoro nonostante avrebbe potuto uscirne malconcio, evento che si è tutt'altro che verificato. In questo caso invece, i telespettatori sono stati costretti ad assistere ad un confronto a distanza, in cui a dibattere sono stati un personaggio contro il quale sono state fatte delle dichiarazioni e l'eco, la memoria, il riepilogo delle affermazioni di un altro.


E' vero che a partire dalla campagna elettorale appena trascorsa abbiamo cominciato a familiarizzare, grazie al Movimento cinque stelle, con i confronti con contraddittorio assente - decisamente innovativi nella storia politica italiana - ma almeno in questo, personalmente parlando, preferirei che si tornasse alla tradizione. Del resto, il metodo dialettico di dibattito dura dai tempi di Socrate. Ci sarà un motivo, no?

22 marzo 2013

La mafia uccide, uccidiamo la mafia

di Roberto Marino

Potrebbe essere questo l'imperativo che la società italiana deve darsi, per liberarsi dal problema enorme della criminalità organizzata di stampo mafioso. Questo può accadere soltanto se si comprende fino in fondo che la mafia - che la si chiami "cosa nostra", 'ndrangheta o camorra - è un morbo inizialmente endemico, che si è trasformato sempre di più in pandemico nel corso del tempo. La mafia infatti distrugge una società non soltanto dal punto di vista fisico, uccidendo le persone, ma anche dal punto di vista morale, uccidendo la libertà degli individui, la democrazia, uccidendo l'uguaglianza di fronte alla legge, e dal punto di vista economico, uccidendo la concorrenza. 

E' questo il senso delle parole di don Luigi Ciotti, il quale ieri, in occasione della XVIII giornata della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime delle mafie, ha ribadito che bisogna chiamare «la mafia con questo nome, quello di peste». Il fondatore di Libera ha invitato tutti a non uccidere le vittime di mafia «una seconda volta con il silenzio, con la delega, con la rassegnazione e con l'indifferenza, [...] con la memoria rituale, celebrativa, fine a se stessa. La memoria deve sempre diventare impegno». E l'impegno non può essere altro che la lotta quotidiana di tutti, in qualsiasi occasione, contro il potere della criminalità organizzata. 

La risposta più forte deve ovviamente arrivare da parte delle istituzioni. Queste non possono lasciare i cittadini in balia delle organizzazioni criminali e neppure soli a combattere un mostro dalle cento teste e dalle mille braccia, che continuamente si espande. Eppure esistono luoghi fisici e non in Italia in cui le istituzioni purtroppo sono poco presenti o non sono in grado di contrastare questo fenomeno dilagante. Ciò accade a causa della connivenza e continuità troppo spesso esistente tra pezzi dello Stato e criminali per i motivi più disparati: dalla convenienza negli "affari" (piccoli o grandi che siano) al timore individuale di ricevere atti intimidatori o, peggio ancora, veri e propri atti di ritorsione. Non bisogna dimenticare infatti che le istituzioni non sono organismi sovrumani, bensì organizzazioni composte da uomini e, come tali, dirette dall'azioni di esseri umani soggetti alle stesse debolezze, timori, paure, velleità di tutti gli altri.

Tutto ciò non deve però spaventare né bloccare. E neppure, come spesso accade - anche se questo più frequentemente tra la gente comune - rilegare il fenomeno in un regionalismo deresponsabilizzante. Il fenomeno della criminalità organizzata di tipo mafioso è ormai divenuto da anni di carattere nazionale ed anche internazionale. Per restare in ambito italiano, si possono ricordare tutte le inchieste portate avanti dai nuclei investigativi nelle varie regioni del centro-nord Italia (disponibili sul sito del Ministero dell'Interno) e, ancor di più, il caso dell'arresto dell'assessore lombardo Domenico Zambetti, accusato di aver acquistato un pacchetto di circa 4000 voti dalla 'ndrangheta. Questo episodio, non certo unico nel suo genere, è particolarmente grave, perché dimostra - fermo restando il garantismo nei confronti della persona fino alla conclusione definitiva del processo - che la mentalità mafiosa si è radicata anche nelle istituzioni, mentre queste avrebbero il compito di combattere il male piuttosto che alimentarlo.

Come è ben comprensibile, il nucleo di potere della criminalità mafiosa è rappresentato dal denaro (proveniente dalle attività di spaccio di stupefacenti, di traffico internazionale di armi, di gestione del gioco d'azzardo e di speculazione sullo smaltimento illegale dei rifiuti) e dalla capacità di incunearsi nelle attività lecite sia di carattere economico (settore edilizio, produzione di energia ecologica) che finanziario. Per quanto riguarda la 'ndrangheta ad esempio, essa è riuscita ad inserirsi nel tessuto produttivo lombardo, controllando il mercato della produzione edilizia già da diversi anni, soprattutto grazie all'intellighenzia che è stata in grado di creare nel corso del tempo. I colletti bianchi sono infatti i veri mafiosi del XXI secolo. Gente istruita, con tanto di titoli universitari, liberi professionisti, che riescono, grazie al potere delle loro conoscenze e a quello della violenza vecchio stampo delle case-madri meridionali, a costringere o a convincere la classe dirigente politica ed economico-finanziaria a fare affari con loro.

Tutto ciò accade però dove il mercato è florido e già esistente. Nelle regioni meridionali poco sviluppate invece resiste ancora un modello culturale, morale ed economico immaturo e pressoché arcaico. Qui il potere viene gestito attraverso l'intimidazione, non necessariamente esibita, e lo sfruttamento della situazione di povertà e bisogno della parte più in difficoltà della popolazione. La criminalità mafiosa offre infatti lavoro alle persone disagiate, in forza del proprio potere economico e intimidatorio. In cambio chiede ovviamente omertà, "rispetto", sottomissione. 


La risposta a tutto questo deve essere forte. Innanzitutto, da parte degli organi competenti di tipo legislativo, di tutela dell'ordine pubblico sia civile che militare. In secondo luogo, è necessaria l'azione culturale della scuola, delle organizzazioni no-profit come quella di don Ciotti, che ogni giorno si spendono per contrastare il potere mafioso e della diffusione delle storie di tutte le vittime di mafia: da quelle illustri come gli uomini che hanno lottato (Falcone, Borsellino, Chinnici, Impastato) ai morti casuali e "non previsti". 


Per ritradurre le parole di don Ciotti con altro linguaggio, possiamo dire che soltanto quando non avremo più casi come quelli Falcone, Borsellino, Impastato e simili e quando non avremo più bisogno di trasformare tutti questi personaggi in miti, potremo dire di aver sanato la società dal male e di aver realizzato quel grande obiettivo che questi grandi uomini hanno perseguito durante la loro vita: la distruzione delle mafie.

18 marzo 2013

Anche i barbari discutono e pensano

di Roberto Marino

Barbaro è un termine che gli antichi Greci e poi i Romani utilizzavano per indicare gli stranieri. Questa parola però aveva allora un orizzonte semantico più vasto di quello che noi comunemente le attribuiamo. Significava infatti sì proveniente da un luogo al di fuori di confini geografici, seppure non così precisi come quelli nazionali odierni, ma soprattutto in senso culturale, morale e giuridico. I barbari erano cioè tutti quei popoli che avevano dei costumi, usi, modelli giuridici, religiosi, forme di organizzazione statale giudicati primitivi dai detentori della civiltà, ovvero Greci e Romani. Addirittura, gli stessi Romani, all'indomani della conquista della Grecia - II secolo a.C. - erano considerati barbari dai Greci.

Nella politica italiana, nel periodo in cui la Lega Nord si affacciava sul panorama politico (fine anni '80) venne definita un partito "barbaro". In effetti, i caratteri peculiari del barbarismo (in un senso scientifico e non morale del termine) c'erano tutti. La Lega si presentava come un partito poco strutturato, con un linguaggio più pragmatico, con idee innovative e rivoluzionarie (federalismo, decentralizzazione del potere, attenzione ad un consenso territoriale piuttosto che nazionale, difesa di interessi locali, denuncia di abusi di potere e denaro da parte della classe politica) che lo collocavano al di fuori dal contesto istituzionale della politica consolidata. Quella politica che, con lo stesso atteggiamento snobbistico dei popoli antichi acculturati, guardava con disprezzo, ma con paura più o meno ben celata, il fresco vigore di nuove forze, che avrebbero mandato avanti la storia. 

Gli anni sono passati e il barbarismo primitivo della Lega, pur con qualche strascico, è stato assorbito nelle e dalle maglie della istituzionalizzazione. La Lega è diventata partito di opposizione prima e di governo poi e ha acquisito pregi e difetti dei partiti tradizionali e strutturati.

In questa nuova campagna elettorale, abbiamo assistito però ad un fenomeno di presentazione di una formazione politica neo-barbara: il Movimento cinque Stelle. Anche questo partito-non partito si presenta con i tratti barbareschi delle formazioni lontane dalla consueta politica, ma di un barbarismo evoluto e digitale, che possiede e sfoggia lauree (anche se non sempre pienamente possedute) e conosce lingue e internet. I valori del movimento sono infatti: la necessità di una democrazia più diretta e meno rappresentativa, di una maggiore controllabilità dell'operato degli eletti ad opera degli elettori, di maggiore frugalità, sobrietà ed economicità della politica e di maggiore trasparenza nell'azione e nella gestione del denaro pubblico da parte della classe politica. 

Due giorni fa si sono svolte le elezioni dei presidenti di Camera e Senato. i parlamentari del Movimento, che solo il giorno prima avevano visto respingersi i propri candidati, hanno in parte sostenuto, come loro stessi stanno ammettendo, presumibilmente con 12 voti, - la votazione avviene in forma anonima - il candidato presentato dal Pd, Pietro Grasso, ex Procuratore nazionale antimafia. Tutto ciò nonostante il loro Codice di comportamento parlamentare vieti le alleanze con altre forze politiche, se non su questioni esclusivamente programmatiche. Inoltre, il Movimento è caratterizzato, o almeno lo stato fino ad ora, da un atteggiamento piuttosto compatto e quasi granitico nei confronti del rifiuto della politica tradizionale e dei suoi vizi, spesso accusato di sottomissione nei confronti del suo leader-portavoce Beppe Grillo, che ha denunciato l'accaduto come tradimento dello spirito del Movimento. 

Contrariamente a quanto più di qualcuno sta dicendo, questo evento non dimostra, o almeno non ancora, la spaccatura all'interno della formazione guidata da Grillo, tuttalpiù la presenza di individualità di pensiero e coscienza singola. Fenomeno confermato dal fatto che alcuni senatori grillini hanno pubblicamente dichiarato la propria scelta con tanto di motivazione, dimostrando di rispettare il proprio regolamento, che condanna la segretezza del voto parlamentare. Anche l'elettorato Cinque Stelle sta dimostrando indipendenza ed eterogeneità di pensiero, come risulta dai commenti contrastanti sull'accaduto. Tutto rigorosamente svolgentesi in rete. 

Francamente, è ancora presto per dire cosa accadrà nelle prossime settimane. La situazione è troppo fluida e incerta per poter fare previsioni ragionevoli e attendibili ed inoltre questa formazione politica è ancora nuova e sconosciuta. Ancora più difficile è dire se i neo-barbari si trasformeranno in "popolo civil-politicizzato", lasciandosi assorbire e sedurre dalle lusinghe della istituzionalizzazione all'italiana. Quel che è certo però, allo stato attuale, è che se ciò avvenisse o se ciò fosse percepito dall'elettorato Cinque Stelle, il loro consenso si sgonfierebbe inesorabilmente.

14 marzo 2013

Habemus Papam

di Roberto Marino

E' fatta. Con l'ultima elezione della giornata di ieri, il Conclave dei cardinali ha eletto il nuovo successore dell'ultimo papa, Benedetto XVI, e del primo, Pietro. Si chiama Jorge Mario Bergoglio; è argentino, ma di origine italiana. Una mezza soddisfazione per chi sperava in un papa interamente italiano. Ieri alle 19,06, dopo la quinta elezione dall'inizio dei lavori del Conclave e al secondo giorno di votazioni, il comignolo della Cappella Sistina ha emesso una fumata che nei primissimi istanti aveva dato l'impressione di essere nuovamente nera. Subito dopo, la smentita immediata ad opera della stessa fumata, che ha fugato qualsiasi dubbio mostrando il suo colore inequivocabilmente bianco. A confermare il tutto, il boato dell'immensa folla dei fedeli nella piazza antistante la basilica che ha accompagnato l'evento al grido di: «Viva il Papa!»

Come di consueto, dopo lo scampanio festoso, c'è stato l'Habemus Papam del sofferente - perché affetto da Parkinson - cardinale protodiacono Jean-Louis Tauran dalla Loggia centrale della Basilica, il quale ha annunciato il nome secolare e quello religioso di Francesco del nuovo eletto. Subito dopo, l'apparizione di papa Francesco, che ha esordito con il discorso di saluto ai fedeli e con la benedizione. Ha molto colpito il succinto discorso del nuovo papa, sia per l'evidente emozione di chi lo pronunciava e sia per le parole scelte per questa prima apparizione pubblica nella nuova veste di pontefice. Il nuovo papa deve aver sentito sicuramente il peso della Storia gravare sulle sue spalle (sia per l'elezione in sé, che per il significato che un'elezione pontificia assume in questo periodo di grande difficoltà per la Chiesa) e la sua commozione è stata il segno più manifesto di questo. Nonostante ciò però, è riuscito a rompere il ghiaccio con parole che sono state lette come un segno di grande vicinanza al popolo dei fedeli. Ha esordito infatti con un saluto laico dicendo: «Fratelli e sorelle buonasera, voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un vescovo a Roma e sembra che i miei fratelli cardinali siano andati a prenderlo alla fine del mondo...». Ha ironizzato il nuovo Papa, ma non più di tanto.


Questa nuova elezione ha un valore simbolico e geopolitico non indifferente. Innanzitutto, è la prima volta che viene eletto un papa non europeo e ciò significa fine dell'eurocentrismo per quel che riguarda la guida della cristianità. Un papa sudamericano può rappresentare l'opportunità di dare una svolta vigorosa ed energica alla gestione degli affari religiosi, sempre più frammentata all'interno della Curia romana ed europea. Inoltre, è  una novità anche l'elezione di un gesuita. Ordine quello della Compagnia di Gesù che, se da una parte si caratterizza per la strenua difesa e la propagazione della religione cattolica - e ciò introduce nella questione geopolitica - quindi della evangelizzazione, dell'obbedienza assoluta ai superiori (in cui si manifesta l'azione della volontà di Dio) dall'altra si ritrova nell'assoluta povertà, nell'umiltà, nella paziente sopportazione di umiliazioni e offese. In questa direzione, va anche la scelta del nome con cui il pontefice ha voluto presentarsi al mondo: Francesco. Come il nome del frate povero di Assisi, grande riformatore della Chiesa, all'epoca di grandi spinte centrifughe e centripete, tenute insieme dal comune desiderio di un ritorno alla purezza e alla sobrietà delle origini del cristianesimo, dopo gli scandali di concubinato e simonia.  


In effetti, durante la sua vita, Jorge Mario Bergoglio ha tenuto uno stile di vita molto sobrio, semplice ed austero. Durante il suo magistero a Buenos Aires, si muoveva da solo in autobus, in metropolitana, cucinava da solo, viveva in un piccolo appartamento piuttosto che in episcopato. Si dice anche che destinò ai poveri il denaro raccolto dai suoi fedeli al tempo della sua nomina a cardinale, avvenuta nel lontano 2001 ad opera di papa Giovanni Paolo II. E ancora, ha raccontato in un intervista del 2009, che in quello stesso anno battezzò sette figli di una vedova sola e povera, avuti con due uomini diversi, che disperata, chiedeva la possibilità di farli entrare nella comunità cristiana. Infine, completando l'elenco degli aneddoti sulla figura del nuovo papa, si deve aggiungere che è molto attento ai temi sociali (tempo fa ha denunciato pubblicamente lo sfruttamento dei lavoratori nelle officine clandestine, il rapimento di donne e bambine per avviarle alla prostituzione, la povertà e il debito sociale), che ha avuto un'adolescenza laica e normale (ha conseguito il diploma di perito chimico, la laurea in filosofia, ha persino avuto una ragazza e solo dopo ha avvertito la vocazione e intrapreso la via della fede). Tutta questa testimonianza morale, di pensiero di azione e biografica di vicinanza alla normalità delle persone è ciò i fedeli si aspettavano e si aspettano da tempo dalla Chiesa e dai suoi massimi rappresentanti. 


Per quanto riguarda l'aspetto geopolitico, in un articolo del Corriere della Sera, Vittorio Messori imposta un ragionamento interessante sul valore della scelta, certo non casuale, effettuata dai cardinali di un papa latinoamericano e sulle conseguenze che questa avrà. Il giornalista paragona, seppure con le dovute differenze, questa elezione a quella strategica fatta a suo tempo nei confronti di Karol Wojtyla. Come allora infatti si decise per un papa polacco, che avrebbe contribuito in modo sostanzioso all'apertura di una breccia all'interno sistema comunista, allo stesso modo oggi, l'elezione di un papa latino è l'elemento di sfida per tentare di arginare un problema urgente e grave, quale l'abbandono della fede cattolica da parte del continente sudamericano. I cattolici latini sono infatti molto corteggiati e sedotti dalle sette dei «pentecostali che, inviati e sostenuti da grandi finanziatori nordamericani - prosegue il giornalista - stanno realizzando il sogno del protestantesimo degli Usa: finirla, anche in quel Continente, con la superstizione "papista"»


Tante speranze si concentrano su questa nuova elezione; speranze di cambiamento, se non di rivoluzione, come ha auspicato don Andrea Gallo, ospite in una trasmissione televisiva tenutasi nel giorno dell'annuncio delle dimissioni di Ratzinger. Il sacerdote genovese aveva lanciato la sfida di trasformare le dimissioni di Benedetto XVI e l'allora futura elezione del nuovo papa in un'occasione per aprire un nuovo Concilio Vaticano, una sorta di pontificato costituente, che possa affrontare questioni spinose, come l'abbandono del celibato per i sacerdoti, la questione del sacerdozio femminile, le tematiche etiche e bioetiche importanti dei nostri tempi (aborti, divorzi, unioni omosessuali, eutanasia). 


Non bisogna farsi illusioni su questo però. Per quanto il nuovo papa possa essere moderno e attento alle problematiche socio-culturali, rimane pur sempre custode di una tradizione dottrinale e dogmatica secolare, che forse smetterebbe di essere tale se venisse completamente ribaltata. Gli unici cambiamenti, che ragionevolmente potranno verificarsi, potrebbero andare in direzione di una maggiore disponibilità verso una elargizione sacramentale più libera verso categorie attualmente marginalizzate (ad es. eucarestia ai divorziati e simili). Questioni cioè che non intaccano strutturalmente l'impianto dottrinale del cattolicesimo. Personalmente, mi piacerebbe vedere aperture forti sui temi più sopra indicati, tuttavia il realismo è d'obbligo. Specialmente prima ancora che i lavori comincino. 

09 marzo 2013

Un augurio (vero) alle donne

di Roberto Marino


No, non sono smemorato, né ritardatario e neppure folle. So benissimo che il mondo ha festeggiato ieri la ricorrenza in nome della donna, ma io preferisco ricordare le donne in un giorno non consueto. Non è anti-convenzionalismo chic il mio, ma sono sinceramente convinto del fatto che l'immagine (e non solo quella) della donna vada rispettata, ricordata, difesa, tutelata, tutti i giorni dell'anno ed è per questo che ho pensato che un buon modo, sicuramente simbolico, per cominciare a farlo potrebbe essere quello di scrivere due righe il giorno dopo in cui il mondo generalmente festeggia. 

Si potrebbe erroneamente pensare che nel mondo occidentale la festa della donna abbia ormai un valore quasi esclusivamente simbolico, più consumistico che reale, eppure i casi di violenza sulle donne sono ancora tanti, troppi. Una realtà vergognosa. Per rendersene conto, non serve andare molto lontano; basta leggere i dati che l'Osservatorio del Telefono Rosa ha pubblicato quest'anno nell'annuale rapporto "Le voci segrete della violenza". Secondo lo studio, che analizza i dati di 1562 vittime di violenza che si sono rivolte Telefono Rosa, risulta che nel 2012 siano state uccise 124 donne. I casi di violenza avvengono maggiormente tra le mura domestiche, infatti nel 60% dei casi a praticare la violenza è il marito o il partner convivente, mentre nel 23% è l'ex partner. Un altro dato sconcertante è che soltanto nel 2% dei casi la violenza avviene per mano di sconosciuti, dimostrando come questo fenomeno così deplorevole sia un mero "fatto privato" e "affettivo". 

Inoltre, non bisogna dimenticare i casi di stalking. Se pensiamo che il reato di persecuzione è stato inserito nel codice penale italiano soltanto nel 2009 e che le vittime sono in prevalenza donne, capiamo bene come la situazione sia allarmante anche da quest'altro punto di vista. Ecco perché una giornata in ricordo della donna ha un valore importante anche in Italia. Serve a sensibilizzare l'opinione pubblica, affinché fenomeni del genere scompaiano definitivamente dalla cultura italiana, ancora troppo maschilista e violenta. 

Spostandoci in ambito internazionale, si nota come esistano pratiche culturali legate a tradizioni religiose arcaiche e violente. La più nota tra queste, avente una dimensione sia fisica che psicologica, è l'infibulazione. Questa pratica barbara comporta l'asportazione chirurgica del clitoride, delle piccole labbra e di parte delle grandi labbra dell'apparato vaginale, cui segue poi la cucitura della vulva, lasciando aperto soltanto un foro per consentire la fuoriuscita dell'urina e del liquido mestruale. Viene praticata in molte zone dell'Africa, nella penisola araba e nel sud-est asiatico. La motivazione di questa operazione consiste nella necessità di preservare l'illibatezza e la castità della donna fino al giorno del matrimonio, attraverso l'impossibilità di consumare l'atto sessuale e l'annullamento del piacere. Nel giorno del matrimonio, il marito effettua direttamente la scucitura della vulva, per poter consumare il rapporto sessuale. Fino al giorno del parto la vulva della rimane aperta, in seguito viene ricucita e scucita ogni volta che si ha necessità di procreare. Oltre a non provare piacere, la donna infibulata avverte persino dolore durante il rapporto, in seguito all'insorgenza di cistiti, ritenzione urinaria e infezioni vaginali.        

E ancora, sempre in contesto internazionale, si verifica l'orrendo fenomeno delle spose bambine. Secondo i dati forniti dall'ong Plan International e diffusi da Radio Vaticana attraverso un'intervista a Tiziana Fattori, direttore  nazionale di Plan International Italia, nel gennaio di quest'anno, risulta che 10 milioni di ragazze e bambine contraggono regolarmente matrimonio prima dei 18 anni. In molti casi, in alcuni Paesi africani come il Niger, il Chad, il Bangladesh, il Mali, l'Etiopia, la Guinea, accade che ad essere costrette a sposarsi siano bambine al di sotto dei 15 anni. O, peggio ancora, si verificano casi in cui le famiglie diano in sposa le proprie bambine di 8-10 anni a uomini di 50, allo scopo di ripagare un debito, e togliere dalle proprie spalle le spese di mantenimento alimentare e scolastico delle figlie. Contrariamente a quanto si possa pensare, il fenomeno prescinde dalla religione - in questi Paesi la religione musulmana è decisamente prevalente - tanto è vero che è diffuso anche presso comunità cristiane. 

Ritornando in Italia e sfiorando la quotidianità di contesti cosiddetti normali, notiamo che la nostra società è ancora pervasa da una cultura poco evoluta in fatto di parità di diritti. Molte donne vengono discriminate sui posti di lavoro perché madri attuali o potenziali tali, attraverso la pratica delle dimissioni in bianco. In questo senso il legislatore - con la riforma Fornero - ha fatto qualche passo avanti, inserendo un articolo nella normativa, che tutela la lavoratrice costretta o "vivamente consigliata" a firmare un foglio di dimissioni in bianco appena assunta dal datore di lavoro, sospendendo le dimissioni fino a verifica ed avvenuta approvazione del servizio ispettivo del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. L'elenco delle discriminazioni è ancora molto lungo. La mancanza di presenza femminile nei ruoli chiave della nostra società è ancora troppo grande. Non abbiamo mai avuto un Presidente della Repubblica donna, un Primo Ministro donna (l'Inghilterra lo avuto 30 anni fa). Le parlamentari donna sono ancora poche rispetto agli uomini, i top manager donna nelle aziende e società varie sono quasi inesistenti. E' un problema culturale che va affrontato e risolto. 

Per ultimo, vorrei focalizzare l'attenzione sui comportamenti e atteggiamenti quotidiani tenuti da noi uomini "normali" e rispettosi nei confronti delle nostre donne. Anche noi commettiamo a volte degli errori, quando trattiamo le nostre mogli, compagne, madri, sorelle, soltanto come mogli, compagne, madri, sorelle e poco come donne. Dovremmo prendere di più in considerazione le loro esigenze di donne ed impegnarci a far sì che si sentano appagate e realizzate come esseri umani e non solo per il ruolo che affettivo o sociale che svolgono. Come ha ribadito ieri sera Serena Dandini - ospite nella trasmissione Otto e Mezzo condotta da Lilli Gruber - è necessario collaborare tutti insieme, uomini e donne, affinché si possa ristabilire un equilibrio vero tra i sessi, portando a rispettare, far emergere e quindi valorizzare - aggiungo io - i diritti, i bisogni, le capacità, i meriti delle donne in quanto esseri umani, che hanno pari dignità rispetto agli uomini, pur nelle diversità individuali e di genere.   

07 marzo 2013

La politica delle lenticchie

di Roberto Marino

Non si capisce perché l'Italia sia un Paese a forte trazione conservatrice. Sembra quasi che si ostini volutamente a rimanere legata al passato, come se questo fosse realmente fonte di certezza, di stabilità, di funzionalità. Eppure la situazione che si sta verificando oggi in Italia dimostra che i vecchi schemi di pensiero e comportamento non sono stati risolutivi e non premiano. E dal punto di vista economico e dal punto di vista del rapporto con i cittadini/elettori. 

Certo, una tendenza analitica di stampo storicista indurrebbe, se non obbligherebbe, a rintracciare la fonte del fenomeno nel fatto che l'Italia è stata la patria del trasformismo e del clientelismo, che l'Italia ha scelto per 40 anni di essere rappresentata e governata dalla Democrazia cristiana, che abbiamo l'influenza di una cultura intrisa di religione, etc., ma tutto ciò non spiega fino in fondo perché ci si tappi le orecchie e gli occhi di fronte alla voglia urlata di novità. E' una questione di opportunità, di pragmatismo, di necessità, di sopravvivenza.

In un'intervista al Corriere della Sera di una settimana fa, Massimo D'Alema avrebbe proposto una strada, a suo avviso praticabile e utile, per risolvere il problema dell'impasse in cui si trovano le istituzioni, la politica e di conseguenza l'intero Paese. Secondo l'ex onorevole ed ex Presidente del Consiglio, la soluzione sarebbe coinvolgere le due forze politiche maggioritarie - escluso il Pd ovviamente - affidando loro le due maggiori cariche istituzionali dello Stato - dopo quella della Presidenza della Repubblica - ovvero Presidenza del Senato e della Camera. Ora, se una soluzione del genere potrebbe "andar bene" per un partito politico storico come il Pdl - anche se forse non andrebbe bene per l'Italia - non si potrebbe dire la stessa cosa per un movimento come quello dei Cinque stelle, che del rifiuto degli inciuci, del diniego della politica delle alleanze e degli accordi-contentino ha fatto la sua bandiera ed il suo successo. Ci troviamo di fronte qualcosa che va ben oltre il piatto di lenticchie con cui Esaù scambiò la sua primogenitura. 


Dall'altra parte invece troviamo il Pdl che disperatamente sta tentando - nel senso letterale di sedurre - il Pd a stipulare un'alleanza, che ha il sapore di nazional-strategia, evidentemente per non essere tagliato fuori dagli appuntamenti importanti che la politica dovrà affrontare nei prossimi giorni. Il più importante fra tutti: l'elezione del nuovo Presidente della Repubblica. E' vero infatti che manca da molto tempo un Capo dello Stato politicamente vicino ad ambienti di centro-destra e avere un presidente che, pur mantenendo la consueta onorevole terzietà che una figura così importante deve avere, può essere risolutivo in determinate situazioni di difficoltà, di certo non dispiace. Inoltre, influire sulla scelta delle massime cariche dello stato (se non conquistarle) - e ci si riferisce alle presidenze delle Camere - è sicuramente una prova di forza importante, anche e soprattutto in un momento di crisi come questo.


Ora, è vero che le larghe maggioranze o i governissimi o i governi di larghe intese, come si preferisce chiamarli, sono la soluzione alle situazioni di ingovernabilità di un Paese - del resto anche negli altri Paesi d'Europa (vedi Germania) si stipulano simili accordi in situazioni di difficoltà - tuttavia in Italia operazioni del genere attirano su di sé sempre una cattiva fama. Forse perché la politica italiana è stata dissanguata da accordi e accordini di vario genere, che non hanno dimostrato grande capacità, o meglio volontà, risolutiva di problemi importanti e urgenti. Forse perché una certa realpolitik delle alleanze post voto ha più il sapore di uno scouting, che tradotto dal politichese significa avanscoperta alla ricerca di più di qualche insoddisfatto del suo vecchio partito che, se ben corteggiato, potrebbe diventare un dissidente che cambia casacca. 


Quello che sembra più ragionevole fare allora è trovare accordi (veri e non strategici) pragmatici di poche ma immediatamente operative idee che risolvano problemi urgenti, piuttosto che cercare di riassorbire con i metodi della politica delle lenticchie gli ematomi causati dalle consultazioni elettorali appena terminate. Ciò significa: modifica della legge elettorale; abolizione dei finanziamenti pubblici ai partiti con rinuncia immediata di quelli previsti in questa tornata; riduzione drastica dei costi della politica (riduzione del numero dei parlamentari e dei compensi); abolizione o accorpamento sostanzioso di enti locali dispendiosi e utilizzo del denaro ricavato per abbassare la pressione fiscale sul lavoro e finanziare le imprese. Di fronte a proposte di questo genere, anche le diffidenze più ostinate dovrebbero dissiparsi, il buon senso dovrebbe fare il resto.


Questa la politica più immediata. Ciò che conta adesso è uscire dallo stallo. Per quanto riguarda il futuro, si aspetta il momento più propizio per le prossime consultazioni elettorali.