17 luglio 2013

La vergogna di essere italiani

di Roberto Marino

Mi vergogno di essere italiano. Non ho mai provato questa sensazione, ma dopo le dichiarazioni ingiuriose fatte dall'ex ministro e oggi vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, nei confronti del Ministro delle Pari opportunità, Cecile Kyenge, è quasi inevitabile. E' inevitabile vergognarsi di appartenere alla stessa nazione cui appartiene un rappresentante delle istituzioni, dell'Italia in patria e nel mondo, che si permette di insultare una propria collega in modo così oltraggioso, con un anacronismo degno del peggio del secolo da poco concluso. 

Ma questa non è l'unica cosa di cui vergognarsi. C'è di peggio. Per esempio, c'è la motivazione che ha spinto Calderoli ad usare quella irripetibile similitudine razzista - facilmente riconducibile all'utilizzo strumentale dell'arma del razzismo - per rivitalizzare le frange più estreme del popolo militante leghista, zoccolo duro del partito, dopo la caduta di stile, di immagine, verificatasi dall'ultima gestione Bossi-big family. Un partito politico che si serve del razzismo, dell'insulto, dell'offesa non può essere compatibile con la vita democratica (e i suoi valori) di un Paese che ha scelto proprio la via democratica per governare, amministrare, gestire se stesso. 

E ancor più vergognosa è la mancanza di senso di quella responsabilità, rispetto al delicato ruolo individuale che si ricopre, che dovrebbe invece impedire di fare della retorica starnazzante, buona soltanto ad eccitare gli animi, ma non ad affrontare problemi. L'idea secondo la quale esisterebbero spazi franchi completamente deregolarizzati - come i comizi elettorali ad esempio - in cui chiunque può dire e fare ciò che vuole, è contraria ad uno dei principi fondanti della democrazia. La politica basata sulla massima - non proprio ricca di saggezza - "a casa mia faccio ciò che mi pare" sta portando alla deriva questo Paese, perché autorizza il diritto d'esistenza all'individualismo sfrenato, privo di controllo e assassino della vera libertà. Quest'ultima esiste soltanto se confina con il rispetto dei diritti dell'altro, altrimenti è anarchia.

Ciò che spinge ulteriormente in avanti la macchina della vergogna è poi la minimizzazione, la difesa e spesso l'emulazione di dichiarazioni e comportamenti simili. L'autore della porcata (l'ultima, non la legge che porta il suo nome) minimizza e quasi difende il proprio operato. Chiede pubblicamente scusa, è vero, ma che valore possono avere le sue scuse di fronte ad una tale violazione? Troppo facile gettare il sasso e poi ritirare la mano. Inoltre, rivendicare l'idoneità necessaria a mantenere l'attuale (doppio) incarico di senatore e vicepresidente, in nome della propria imparzialità, significa fare retorica altisonante, scomodando ipocritamente a chiacchiere alti principi per violarli con sadico piacere nei fatti. 

E la minimizzazione o la difesa di alcuni colleghi di partito come la si può definire se non più gravemente vergognosa? Questo perché dimostra come un intero pezzo della classe dirigente italiana avalli l'utilizzo di razzismi e pensi di poter poi prendere in giro chi ascolta, segue l'evolversi della vita politica italiana, rattoppando con banali lenitivi o distogliendo l'attenzione parlando d'altro. Ridurre l'episodio ad un semplice scivolone, ad una battuta di pessimo gusto significa insultare l'intelligenza dei cittadini! 

L'intera, pessima vicenda evidenzia chiaramente come una certa classe politica italiana sia estenuata, priva di forza vitale, di idee, di soluzioni, di visione d'insieme e per questo sia obbligata a ricorrere ad una propaganda vecchia, spicciola e violenta per dimostrare di avere ancora qualcosa da dire e da fare. Infatti, dopo aver divorato il futuro, dopo che avrà distrutto il presente, dopo aver lasciato nel degrado e nell'abbandono l'arte e la cultura, dove ancora l'attuale classe dirigente vorrà condurre il Paese, al diavolo forse? Con massimo rispetto per il diavolo, s'intende.  

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