25 novembre 2013

Biagio Accardi il cantastorie


di Giovanna Cafaro e Roberto Marino

Ci sono figure, non soltanto professionali ma anche appartenenti al mondo della cultura popolare, che vengono travolte inevitabilmente dal progresso tecnologico ed economico. Una di queste è il cantastorie. Un tempo intrattenitore nelle piazze di borghi e villaggi, diffusore di cultura presso gli strati sociali meno elevati della popolazione, oggi è una vera e propria rarità. A maggior ragione il suo valore culturale diventa ancora più elevato. Perché riesce a strappare qualche risata genuina e non confezionata in un contenitore mediatico; perché riscopre valori, conoscenze, modelli comportamentali che appartengono al passato e che ci sono sconosciuti, anche se spesso inconsciamente retroagiscono nella nostra vita. 

Può anche capitare però di trovarsi di fronte a chi crede ancora nelle proprie radici al punto tale da recuperare una figura simile e coniugarla con le necessità ed opportunità del mondo contemporaneo. Nasce così la figura del cantastorie moderno, che gira a piedi per i comuni della sua terra (la Calabria) in compagnia di un'asina - Cometa Libera il suo nome - e porta i suoi spettacoli, fatti di serenate, strine, canti popolari, alla conoscenza di tutti, lanciando un messaggio in controtendenza rispetto alla velocità cui siamo abituati: il messaggio della riscoperta dell lentezza.

Noi di Accendiamo le Idee abbiamo incontrato una simile perla rara alla presentazione del suo libro-CD Cantu cuntu e... mi ni fricu e non ci siamo lasciati sfuggire l'occasione di intervistarlo.

Cominciamo col dire chi è Biagio Accardi.
E' un uomo qualunque. Il cantastorie è un personaggio di questa epoca. E' colui il quale sta inventandosi un lavoro, soprattutto allo scopo di promuovere un territorio troppo spesso abbandonato, dimenticato; colui che sta cercando di portare un messaggio, che è quello della lentezza. Di fronte poi ad una situazione di crisi economica come quella che stiamo vivendo, rivalutare il mondo contadino, il mondo rurale può essere l’unica strada percorribile per i giovani. Non bisogna prendere però una soluzione del genere come una sconfitta. Potrebbe infatti costituire un beneficio per l'ambiente, per il mondo dove viviamo, per la qualità della nostra vita.

Le esibizioni dei cantastorie sono un vero e proprio atto performativo, un rito che riflette, esprime il sistema sociale o la configurazione culturale di una determinata epoca, nella quale, attraverso una critica in parte diretta in parte velata, si trasmette il senso della nostra Storia. Secondo l’antropologo Victor Turner, le performance culturali non sono semplici schermi riflettenti o espressioni di cultura, ma possono diventare esse stesse agenti attivi di cambiamento.
Pienamente d’accordo con la posizione di Turner. Ho sempre pensato che le forme artistiche, qualsiasi esse siano, debbano recare un messaggio. Se poi questo riesce ad essere strumento di cambiamento (e un cambiamento deve esserci) sensibilizzando l'animo umano, allora la poesia avrà realizzato forse il suo compito morale più elevato. Se un cambiamento sociale ci sarà, arriverà sicuramente attraverso la poesia.

L’associazione Cattivo Teatro si inserisce in quel filone di controcultura, che vuole mettere tra parentesi un modello culturale massificato e omologato. In una realtà così satura di informazioni, di dati, di ipermedialità (internet è un medium esplosivo) si rischia di inciampare nel qualunquismo o, d'altra parte, nell’asservimento mediatico, dove riuscire a dare all’uomo comune una sorta di orientamento diventa difficile.
Il documento che riporta questo tipo di progetto a cui lei si riferisce, all'interno del quale vengono presentate la mia associazione e gli obiettivi che si propone di raggiungere, è piuttosto datato. Risale infatti all'epoca in cui internet cominciava a muovere i suoi primi passi. Sicuramente, all'interno dei mass media, c'è il rischio che il messaggio diventi un'operazione piuttosto confusionaria, retorica, un qualcosa che sta nel calderone. Per questo motivo, il mezzo che preferisco per veicolare determinati messaggi è la mia arte, è quello che faccio nelle piazze a diretto contatto con la gente.

Canto, cuntu... è uno spettacolo di stampo teatrale che include al suo interno non solo gli elementi della tradizione calabrese quindi la “strina”, le sonate sempre accompagnate dalla tipica strumentazione dell’epoca ma vi si trova la maschera della Commedia dell’arte, forse una scelta stilistica che serve a evidenziare, attraverso la stilizzazione di particolari stereotipi, le virtù e i difetti di un popolo.
Sono un cantastorie atipico, frutto del mio vissuto artistico. La maschera è solo uno strumento come tanti altri, che ho a disposizione per dire certe cose. Faccio qualche esempio: lo scherno di Il Testamento, in cui un personaggio morto lascia una sorta di testamento spirituale attraverso cui prendere in giro diversi personaggi di grado sociale più o meno elevato, oppure la ironica e divertente reazione schifata di Noè, il personaggio di Kairos - il nuovo progetto a breve in partenza (NdA) - di fronte alla provetta che contiene il liquido utile a riprodurre il genere umano. Se Biagio uomo mandasse a farsi friggere il genere umano, avrebbe poco senso; una maschera può invece farlo senza creare particolari contraddizioni.

Lo spettacolo conclusivo della sua presentazione, Il Testamento, ricorda molto la tradizione degli chansonniers francesi, in cui si inseriscono ad esempio Georges Brassens (Le Testament, 1956), il belga Jacques Brel (Le moribond, 1961) o il cantautore italiano Fabrizio De Andrè (Il Testamento, 1963), che si ispirò ai primi due e al poeta maledetto del Quattrocentesco, François Villon, che di quella tradizione è uno degli iniziatori. Tutti e tre i cantautori affrontano lo stessa tema, quello della morte in una chiave pungente e ironica. Quali sono i modelli artistici o intellettuali di Biagio Accardi?
Frank Zappa (ride). Tutti e nessuno. Ho detto Frank Zappa, perché secondo me sta nell'olimpo dei musicisti. A citarli tutti quanti... Ovviamente la mia è una scelta soggettiva. 

Che cosa ha imparato, scoperto o, meglio ancora, riscoperto nel suo viaggio nel mondo calabrese?
Tutto quello che ho appreso, o almeno la maggior parte, lungo il mio viaggio nel mondo calabrese lo devo alla mia asina Cometina, la mia maestra di vita. Nell'immaginario collettivo l'asino per antonomasia è considerato come simbolo della cocciutaggine, della testardaggine. Addirittura a scuola si usa l’appellativo di asino in senso spregiativo, per indicare un bambino svogliato. L’asino invece è determinato. Se si ferma per strada e non ha più voglia di camminare, c'è un motivo, magari un pericolo che cerca di comunicare. E' l'irruenza dell'uomo, che cerca piuttosto di sopraffare la natura a tutti i costi, che non può funzionare. Questo, forse, è l'insegnamento più grande che ho ricevuto durante il mio viaggio. Devo dire poi che si è creata una specie di simbiosi molto stretta tra me e la mia asina. Stando infatti a contatto per così tanto tempo, si inizia inevitabilmente a capirsi.

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