04 giugno 2013

MusicaMania: Il Rockabilly dei John Wayne Gacy. (L'Intervista)

di Giovanna Cafaro

Immaginate di viaggiare in un flusso spazio-temporale indefinito come accade nel visionario Back to the future e di ritrovarvi di colpo alla fine del varco che apre alla vista una brulicante hall illuminata da un occhio di bue, nella quale una figura si materializza in scena sulle note di un frenetico rock and roll alla Chuck Berry. Sì, l’atmosfera che si respira sembra proprio corrispondere a quella degli anni Cinquanta.
La sensazionale esperienza descritta è equiparabile a ciò che si prova ascoltando la musica dell’emergente gruppo rockabilly John Wayne Gacy, composto da quattro “svalvolati” – Antonio Adduca (chitarra solista e cultore jazz), Fabrizio Morrone (al basso per necessità ma flautista per vocazione), Marco Ferraro (batterista), Francesco Fazio alias Alvin (chitarra e voce) – i cui destini sono accomunati dall’amore per il genere.
The John Wayne Gacy è la travolgente band che trae linfa vitale dal vasto repertorio della musica anni Cinquanta, o per meglio dire dai musicisti dei favolosi Ottanta che attingono dai suoni di tre decadi prima: gente come Brian Setzer, ex chitarrista degli Stray Cats, tanto per intenderci. È dal repêchage dei ritmi e dei sound unito alle soluzioni strumentali innovative da loro ideate che nasce l’esplosivo genere.

Scopriamo qualcosa in più di loro, i retroscena e le confessioni della loro vita da musicisti parlandone con Alvin, leader del gruppo. 

Ciao Alvin e ben trovato nel nostro piccolo spazio dedicato all’universo musicale. Per cominciare, vorrei chiederti da dove nasce l’idea di formare un gruppo rockabilly.
Tutto ebbe origine nel lontano 2009 quando assistetti all’esibizione del rivoluzionario trio siciliano  Adels: fu amore a prima vista. La loro capacità di combinare insieme Rockabilly, Surf, Blues e Punk - definendo il Pure South-a-Billy Sound (da cui il titolo che diede vita al loro album nel 2006, NdA) - accese in me la voglia di sperimentare nuovi orizzonti pur rimanendo ancorati alla tradizione.

Il nome che avete deciso di adottare suona quasi come un ossimoro: il serial killer Gacy e l’attore dell’epopea classica del cinema hollywoodiano John Wayne, due personaggi antitetici, come nel caso del Dottor Jekyll e Mr. Hyde. L’uno è l’eroe che incarna “l’american dream” alla conquista del nuovo mondo all’interno del melting pot per salvaguardare la comunità dai cattivi; l’altro lo spietato assassino che tortura, sodomizza e uccide le sue vittime con estrema freddezza. Qual è lo slancio che connette le due figure con la nominazione del gruppo John Wayne Gacy? 
Innanzitutto, cercavamo un nome legato a eventi tragici e macabri, come accadeva per la maggior parte delle band del passato. Ti elenco alcuni esempi: il gruppo heavy metal britannico Black Sabbath trae origine dal Sabba, celebrazione orgiastica a carattere per lo più sacrilego che si consumava tra le streghe e il demonio; i Led Zeppelin scelsero lo Zeppelin tedesco LZ 129 Hindenburg come nome per il loro gruppo, poiché rievocava alle menti l’oggetto volante più grande mai costruito, poi distrutto nel 1937 a causa di un incendio; i Pennywise, gruppo hardcore punk statunitense dal perfido clown del celebre romanzo It di Stephen King; o ancora i Lyzzy Borden, che esasperavano le loro performance in forti shock rock (ossia l’attitudine di quei musicisti che durante i loro concerti ne estremizzano le esibizioni con temi a sfondo sessuali e violenti, NdA). La scelta di attingere dalla tradizione rappresentava un modo per rendere omaggio ai grandi artisti, facendo rivivere insieme il bene e il male come matrice della vita. E poi guardo agli innovatori della musica, per citarne solo alcuni: i Black Label Society, il mio mentore Zakk Wylde, i Metallica, gli Skid Row, i Deep Purple, gli AC/DC, i Pink Floyd, i Kiss e i Poison, per discostarmene e forgiarne un personalissimo stile.

Mi chiedevo se fosse diventata una costante tra i giovani quella di rivolgere e tendere l’orecchio al passato, soprattutto come accade negli ultimi tempi con la diffusione e talvolta l’abuso che si fa del termine vintage (dal francese “vendemmia”, indicando con essa la produzione di vino d’annata in riferimento ai manufatti fuori produzione da uno o più decenni, ricercati e collezionati in ragione della buona qualità del design e riconducibile a un determinato periodo storico) - onnipresente su tutti i fronti della vita - dalla moda al design, dalla musica alle automobili e via discorrendo. Nell’ambito musicale questo si ripercuote con l’avvento di band che emulano i loro padri, ricreando certe atmosfere suggestive. Il fenomeno sembra essere in costante aumento: mi sapresti dire perché la necessità di riproporre scenari come questi?
Guardare al passato, o come dici tu “tendere l’orecchio” verso di esso, permette di ammirare musicisti e produttori di testi davvero unici: e ci tengo a sottolineare che la musica, quella vera, esiste. Oggi non ci sono band capaci di compiere gesti eclatanti e di apportare genuine innovazioni nell’ambito del rock and roll e dell’hard rock, dove la produzione si presenta piuttosto scarsa. Per quel che riguarda, invece, il fenomeno prettamente legato al costume, devo dire che esso tende inevitabilmente a scontrarsi con la moda, con l’apparenza e con ciò che ne consegue. Ad esempio, il riferimento agli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, in realtà, è sempre esistito: vedi i Festival, i raduni, che uniscono determinati gruppi sociali per l’amore che si prova verso un particolare genere musicale. Queste realtà «parallele» riaffiorano nel momento in cui ci si accorge che esistono, perciò necessitano di essere vissute e raccontate al mondo.
 
Hai appena citato Festival, raduni, meeting... microcosmi fatti di differenti realtà, dove potersi confrontare e assaporare i retroscena del mondo rockabilly. Frequentate questi circuiti, magari come palcoscenico o trampolino di lancio che possano per farvi conoscere?
Tra i festival più importanti in Italia per lo scenario rockabilly vorrei ricordare il Summer Jamboree  di Senigallia che si svolgerà dal 3 all’11 agosto 2013, una sorta di happening culturale all’insegna di buona musica e non solo. Si tratta dell’evento più frizzante dell’anno in grado di coniugare la passione per il genere in un contesto ricreato ad hoc nel quale ti ritrovi investito e immerso in un’atmosfera davvero senza fiato, con l’insegnante di ballo, la make-up artist che ripropone il trucco anni Cinquanta, il tatuatore e tanti piccoli empori all’aperto con accessori e vestiti vintage: una grande famiglia in grado di offrirti tanto affetto. E poi è grazie alla passione che ci unisce per la musica a rendere tutto ciò così vitale. Il Maverick Rock ’n’ Roll Festival di Crotone, invece, è una realtà calabrese nata da poco: l’ho vissuta da spettatore attivo ed è stato come sentirsi al posto giusto nel momento giusto. Era tutto davvero perfetto!

Frequentare i luoghi “giusti” implica inevitabilmente far parte di una nicchia molto ristretta di cultori del genere. Quanto conta per voi seguire certi dettami e come si riflettono nell’abbigliamento, ma soprattutto nella vita?
Certo l’ambiente è di nicchia, ma non è fatto di soli cultori... per me è diventato sin da subito un vero e proprio stile di vita. Ti faccio un esempio: anche nella quotidianità mi ritrovo a indossare le creeper, le coloratissime camicie hawaiane, da bowling e a quadri che porto durante i concerti. Giochiamo molto con l’aspetto scenico, pensa al burlesque: l’arte e la vita si fondono insieme.

Il rockabilly è un genere ballabile, frenetico e soprattutto coinvolgente, mi descrivereste una vostra performance-tipo?
L’adrenalina sale, ogni concerto è una storia a sé! Solitamente si rompe il ghiaccio con un pezzo originale o un lento per mettere a proprio agio principalmente le coppiette; poi improvvisamente cambiamo registro, ed è qui che il pubblico si lancia in pista lasciandosi travolgere dall’incalzante ritmo.  Si crea una sintonia unica... pazzesco! Solo allora ti accorgi di amare con tutte le tue forze la musica, il rock and roll.

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