di Roberto Marino
(foto www.calcioweb.eu)
Mogli e buoi dei paesi tuoi. Probabilmente dietro le parole a sfondo razzista di Carlo Tavecchio c'era questo pensiero tutto italiano, tuttavia giustificare una frase più che infelice, come quella pronunciata dal candidato al ruolo di presidente della Fgic, in nome della tutela di un principio (sulla cui validità si può poi sicuramente discutere), sarebbe un errore. Questo perché il ruolo che si appresterebbe a ricoprire è decisamente delicato per più di un motivo. Innanzitutto, è la figura di massima rappresentanza del calcio italiano nel mondo. La nostra immagine, la nostra credibilità e la nostra considerazione internazionali passano anche da qui. Secondariamente, un'associazione come la Figc non può permettersi di avere come massima autorità un tizio che adopera frasi a sfondo discriminatorio, perché altrimenti verrebbero meno i valori morali e culturali che lo sport deve trasmettere: rispetto degli altri, delle diversità, sano agonismo e altrettanto sana competizione.
Sarà pur vero che su quella battuta è stato montato un caso mediatico, sarà altrettanto vero che si è cercato di sfruttarla per consumare lotte intestine di potere all'interno della federazione, ma l'errore rimane evidente. Che poi, a ben vedere, la concezione degli stranieri come «mangia banane» - tanto per citare testualmente - è anche storicamente anacronistica, oltre che logicamente priva di senso. Si poteva comprendere, ma non giustificare, in un contesto passato, di qualche decennio fa, quando l'Europa dei popoli era ancora un sogno di pochi. Oggi che la mescolanza etnica e culturale è una realtà, certe resistenze ultra-nazionalistiche rimangono residui del passato.
Che Tavecchio non fosse proprio un eccellente comunicatore lo aveva già dimostrato qualche mese addietro, quando in un'intervista concessa alla trasmissione Report disse: «Finora si riteneva che la donna fosse un soggetto handicappato rispetto al maschio sotto l'aspetto della resistenza, del tempo, dell'espressione atletica. Invece abbiamo riscontrato che sono molto simili». Questa la precisazione chiarificatrice, chiesta dalla giornalista, alle parole pronunciate immediatamente prima, che suonavano altrettanto spinte: «Noi siamo protesi a dare una dignità anche sotto l'aspetto estetico alla donna nel calcio». Tavecchio sociologo insomma, antropologo e comunicatore non proprio illuminati.
Una lancia però - magari meglio una freccia - in suo favore bisogna pur spezzarla. Seppure in un modo non proprio elegante e rispettoso e comunque del tutto personale, Tavecchio solleva un problema esistente nel mondo del calcio: la scomparsa del talento nostrano. La cosa si è resa molto evidente durante questi mondiali. La nazionale italiana è stata, tra le altre cose, carente dal punto di vista dei giocatori di qualità, di eccellenze tutte italiane. Scelte tecniche certamente, ma anche forse esiguità nei vivai giovanili, derivante da scelte manageriali dei club, spostate molto verso il mercato ed il risultato immediato. In questo modo però non si permette ai calciatori di essere valorizzati nei propri paesi di nascita e il calcio nazionale inevitabilmente si isterilisce.
Sarà pur vero che su quella battuta è stato montato un caso mediatico, sarà altrettanto vero che si è cercato di sfruttarla per consumare lotte intestine di potere all'interno della federazione, ma l'errore rimane evidente. Che poi, a ben vedere, la concezione degli stranieri come «mangia banane» - tanto per citare testualmente - è anche storicamente anacronistica, oltre che logicamente priva di senso. Si poteva comprendere, ma non giustificare, in un contesto passato, di qualche decennio fa, quando l'Europa dei popoli era ancora un sogno di pochi. Oggi che la mescolanza etnica e culturale è una realtà, certe resistenze ultra-nazionalistiche rimangono residui del passato.
Che Tavecchio non fosse proprio un eccellente comunicatore lo aveva già dimostrato qualche mese addietro, quando in un'intervista concessa alla trasmissione Report disse: «Finora si riteneva che la donna fosse un soggetto handicappato rispetto al maschio sotto l'aspetto della resistenza, del tempo, dell'espressione atletica. Invece abbiamo riscontrato che sono molto simili». Questa la precisazione chiarificatrice, chiesta dalla giornalista, alle parole pronunciate immediatamente prima, che suonavano altrettanto spinte: «Noi siamo protesi a dare una dignità anche sotto l'aspetto estetico alla donna nel calcio». Tavecchio sociologo insomma, antropologo e comunicatore non proprio illuminati.
Una lancia però - magari meglio una freccia - in suo favore bisogna pur spezzarla. Seppure in un modo non proprio elegante e rispettoso e comunque del tutto personale, Tavecchio solleva un problema esistente nel mondo del calcio: la scomparsa del talento nostrano. La cosa si è resa molto evidente durante questi mondiali. La nazionale italiana è stata, tra le altre cose, carente dal punto di vista dei giocatori di qualità, di eccellenze tutte italiane. Scelte tecniche certamente, ma anche forse esiguità nei vivai giovanili, derivante da scelte manageriali dei club, spostate molto verso il mercato ed il risultato immediato. In questo modo però non si permette ai calciatori di essere valorizzati nei propri paesi di nascita e il calcio nazionale inevitabilmente si isterilisce.
A questo punto, forse, un passo indietro sarebbe opportuno. Non solo per quanto detto sino ad ora, ma anche perché, se anche dovesse ottenere un numero sufficiente di voti per passare (voti che si stanno sempre di più riducendo), Tavecchio, dal punto di vista del suo nuovo ruolo, sarebbe un'"anatra zoppa". Sarebbe cioè esposto a continue polemiche, critiche, che ne sminuirebbero l'autorevolezza e di certo il nostro paese non merita un trattamento del genere. Siamo pur sempre una nazione come le altre e calcisticamente quattro volte campioni del mondo.
Spente le polemiche, i lavori per la nomina del presidente dovranno pur ripartire. Logicamente il clima che si respira nel mondo calcistico non è dei migliori e non sappiamo quanto questa situazione possa effettivamente giovare al nostro paese e a quello sport che da pulito, divertente e depositario di sani valori si è sempre di più trasformato in un mero strumento di business e di conflitto ai vertici. Sarà forse ingenuo, utopistico e perfino puerile pensarlo e dirlo, ma un calcio meno sporco e più trasparente tornerebbe ad essere, se non proprio lo sport più bello del mondo, qualcosa che gli si avvicina molto.
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