Sabato in Poesia: "Vendemmia" di Marino Moretti

Vendemmia di Marino Moretti è una poesia tratta dalla raccolta Sentimento: pensieri, poesie...

Roma capitale d'Italia

Chissà quanti studenti ed ex studenti liceali si sono trovati a tradurre la famosissima frase del De Oratore...

L'origine della crisi finanziaria statunitense

La crisi che ha interessato i mercati finanziari dei paesi maggiormente sviluppati, e che gli esperti...

Così cinque anni fa cominciava la crisi...

"Era una notte buia e tempestosa...", questo è l'incipit dell'interminabile romanzo che Snoopy...

Sabato in Poesia: Estratto di "Beppo, racconto veneziano" (George Gordon Lord Byron)

Beppo è un poemetto satirico in ottave ariostesche (secondo lo schema metrico ABABABCC), attraverso il quale Byron affronta...

13 dicembre 2014

Sabato in Poesia: "Santa Lucia" di Francesco De Gregori

Nella tradizione religiosa e popolare Santa Lucia è protettrice della vista. L'iconografia classica la ritrae infatti con due occhi posti in un piattino retto dalla mano destra. L'origine della leggenda risale all'epoca romana dell'imperatore Diocleziano, quando - secondo un racconto popolare di epoca normanna - la giovane fu decapitata in seguito all'accusa del suo promesso sposo di professare la fede proibita: il cristianesimo. La giovane siracusana Lucia, infatti, appartenente ad una famiglia benestante della città sicula e promessa sposa ad un giovane pagano, fece voto a sant'Agata per ottenere la buona salute ormai perduta della madre, ammalata da anni alla vista. In sogno ebbe l'apparizione della santa, che le disse di possedere ed usare il potere per guarire la madre. Dopo il miracolo, la giovane manifestò la sua ferma intenzione di abbandonare la vita mondana per seguire Cristo e in seguito a questo suo proposito fu denunciata alle autorità dal suo promesso sposo, processata, condannata e decapitata. 
Il testo della canzone di De Gregori è una sorta di preghiera laica, pervasa da una religiosità non convenzionale, che si rivolge alla santa affinché si occupi di tutti coloro che si trovano ai margini dell'esistenza, ma anche delle persone comuni che non si rendono più conto di avere dei problemi. Il testo dimostra la presa di consapevolezza della realtà di una società problematica, che non è più in grado guardare se stessa ed oltre e per cui è necessario un aiuto, un cambiamento. Non è nuovo nella poetica di De Gregori un certo atteggiamento religioso ricco di riferimenti e metafore alla e della tradizione cristiana - seppure non propriamente conforme alla religione rivelata -, come si deduce da altri suoi testi quali Finestre di dolore, Cercando un altro Egitto, Gesù Bambino, Tutto più chiaro che qui. Parimenti non è nuovo il ricorso dell'artista a metafore spesso oscure, vertiginose, criptiche e/o allusive, come quelle presenti in questo testo per definire gli intellettualmente miopi, gli emarginati e i borderline, coloro che sono esposti alle difficoltà della vita.

(Foto wikipedia.org)

Santa Lucia, per tutti quelli che hanno occhi
e gli occhi e un cuore che non basta agli occhi
e per la tranquillità di chi va per mare
e per ogni lacrima sul tuo vestito,
per chi non ha capito. 

Santa Lucia, per chi beve di notte
e di notte muore e di notte legge 
e cade sul suo ultimo metro, 
per gli amici che vanno e ritornano indietro 
e hanno perduto l'anima e le ali. 

Per chi vive all'incrocio dei venti 
ed è bruciato vivo, 
per le persone facili che non hanno dubbi mai, 
per la nostra corona di stelle e di spine, 
per la nostra paura del buio e della fantasia. 

Santa Lucia, il violino dei poveri è una barca sfondata
e un ragazzino al secondo piano 
che canta, ride e stona
perché vada lontano, 
fa che gli sia dolce anche la pioggia delle scarpe,
anche la solitudine.

Francesco De Gregori


Francesco De Gregori (Roma, 1951) è un cantautore e musicista italiano. Si trasferisce molto piccolo a Pescara per via del lavoro del padre, bibliotecario, e dopo dieci anni ritorna nella sua città natale, Roma. Nel 1966 si reca a Firenze col fratello più grande per prestare soccorso agli alluvionati e nello stesso anno inizia a suonare la chitarra. Al Folkstudio di Roma, comincia le proprie esibizioni dal vivo e conosce diversi artisti emergenti, che successivamente diventeranno personaggi di successo tra cui: Caterina Bueno, Antonello Venditti, Mimmo Locasciulli, Ernesto Bassignano, Edoardo De Angelis, Giorgio Lo Cascio. Negli anni '70 arrivano i primi successi discografici e di critica con i famosissimi album Alice non lo saFrancesco De Gregori (soprannominato poi La pecora, per la foto della copertina, che reca proprio un agnello inginocchiato) e il vendutissimo Rimmel. Nella primavera del 1976, durante un concerto a Milano, si ritrova ad essere "ostaggio" di alcuni militanti di estrema sinistra, che accusano il cantautore di essersi venduto al sistema economico borghese e di esibirsi solo per denaro. La situazione si risolve soltanto grazie all'intervento della polizia. Questo evento lo segna profondamente, tanto da fargli quasi decidere di ritirarsi dalla vita artistica, cosa che poi puntualmente non viene tradotta in realtà. Nel marzo del '78 sposa una sua compagna di liceo, Alessandra Gobbi, che gli dà alla luce due gemelli, Marco e Federico. Il '79 è l'anno della collaborazione con Lucio Dalla, da cui viene fuori il riuscitissimo tour Banana Repubblic, che consacrerà i due artisti presso il grande pubblico. L'evento, per la grande partecipazione e per l'organizzazione, segnerà una svolta nel rapporto tra l'artista e i fans, anticipando così i grandi concerti oceanici delle rockstars. Gli anni che seguono saranno coronati dai grandi album di successo, come Viva l'ItaliaTitanicLa donna cannoneCanzoni d'amorePrendere e lasciare e la famosissima Il bandito e il campione, scritto dal fratello Luigi Grechi. Gli anni '90 sono segnati da grandi successi come testimoniato dall'album Canzoni d'amorePrendere e lasciare, mentre i Duemila si aprono con Amore nel pomeriggio, che ottiene la Targa Tenco come miglior opera dell'anno a pari merito con Canzoni a manovella di Capossela, e con un tour a quattro con il vecchio amico Ron, Fiorella Mannoia e Pino Daniele. I successi continuano anche con l'album del 2005 Pezzi, che riceve un altro premio Tenco e la canzone Gambadilegno a Parigi, che viene votata come miglior canzone dell'anno dai lettori del quotidiano La Stampa. Il 2010 è l'anno della grande collaborazione con Dalla. A 31 anni dal fortunatissimo tour con l'amico e collaboratore di sempre, i due riescono a far letteralmente impazzire fans ed estimatori, realizzando il tutto esaurito in ogni tappa del tour e regalando emozioni. La collaborazione diventerà un disco, che prenderà lo stesso titolo dell'evento Work in Progress. L'ultimo album in studio del cantautore romano è invece Sulla strada, dai toni decisamente intimistici ed esistenziali, che rappresenta una sorta di bilancio degli otre 40 anni di carriera, successi e poesia di De Gregori.
La discografia di De Gregori comprende: Theorius Campus (con Venditti, 1972); Alice non lo sa (1973); Francesco De Gregori (1973); Rimmel (1974); Bufalo Bill (1976); De Gregori (1978); Viva l'Italia (1979); Titanic (1982); La donna cannone (1983); Scacchi e tarocchi (1985); Terra di nessuno (1987); Mira Mare 19.4.89 (1989); Canzoni d'amore (1992); Prendere e lasciare (1996); Amore nel pomeriggio (2001); Il fischio del vapore (2002); Pezzi (2005); Calypsos (2006); Per brevità chiamato artista (2009); Sulla strada (2012).

09 novembre 2014

Vaffanmuro! Così 25 anni fa cadeva il Muro di Berlino

di Roberto Marino 


In 25 anni accadono e cambiano tante cose. Si cresce, si invecchia, si realizzano progetti di vita. Tanti ne sono passati dalla caduta del "Muro della Vergogna", definizione con cui in Occidente veniva chiamato il muro di Berlino. 

Costruito nell'agosto del 1961, lungo 155 chilometri, circondato da filo spinato, illuminato a giorno durante la notte, sorvegliato e protetto 24 ore al giorno da soldati di frontiera con l'ordine di sparare a vista contro chiunque avesse provato ad oltrepassarlo, divideva uomini e donne di una stessa città, separava per sempre vite che avevano scelto o si erano ritrovate ad essere unite, lacerando per ben 28 anni il tessuto sociale di una intera comunità urbana e spezzando un continente. Fu voluto dalla Repubblica Democratica Tedesca come "muro di protezione antifascista" - si diceva - allo scopo di impedire aggressioni da parte del blocco occidentale capeggiato dagli americani, ma in realtà fu uno strumento coercitivo per bloccare la consistente emorragia demografica che affliggeva la Berlino comunista.

Alle spalle della costruzione del muro c'era ovviamente la Guerra Fredda tra l'Est e l'Ovest, tra due modelli politico-economici e culturali alternativi e rivali, iniziata subito dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale. Nonostante le fasi più dure dell'aspro confronto a distanza tra i due blocchi fossero state superate - l'apice delle quali fu toccato con il blocco di Berlino del giungo 1948 - e la Guerra Fredda proseguisse in una direzione più distesa (la crisi dei missili a Cuba del '62 fu soltanto un episodio isolato e di breve durata), i sovietici furono "costretti" ad adottare la misura restrittiva della chiusura della città di Berlino alla libera circolazione tra i due settori, per arginare la dilagante fuga dei berlinesi orientali verso il mondo libero dell'Ovest. Si stima infatti che tra il 1949 e il 1961 circa 2,5 milioni di persone passarono dal settore sovietico a quello americano. Una vera piaga per l'immagine dell'URSS, che, nell'ottica della continua corsa alla superiorità sul nemico, non poteva durare. 

Ma la Storia non si adagia sulle logiche umane - fossero anche regolate da sapienti, pianificatissime e raffinate strategie geopolitiche - e il sistema comunista non resse ai colpi, soprattutto interni, delle generazioni di uomini che aspiravano alla libertà e all'ottenimento dei più elementari diritti civili, e a quelli esterni dell'avanzare del libero mercato. Così mostrò evidenti scricchiolii, che portarono a crepe profonde. Se ne accorsero, relativamente in ritardo, anche i quadri dirigenti della Germania Est, nonostante i tentativi di resistenza ad oltranza dei primi mesi di quell'89 carico di grandi novità e la reticenza alle indicazioni di apertura date da Gorbačëv per cercare di salvare il salvabile. 

E si giunse così a quel 9 novembre in cui un giovane si arrampicò sul muro e, invece di essere sparato con i fucili dalle guardie di frontiera, fu innaffiato dai loro idranti. Dopo una lunga passeggiata sul bordo superiore del mostro di cemento, simbolo dell'oppressione durata 28 interminabili anni, saltò nella parte libera della città. Nel corso della giornata fu imitato da centinaia e centinaia di giovani, che iniziarono poi a picconare la lunga costruzione. Nei giorni successivi l'entusiasmo generale portò alla vendita di pezzi di muro, come souvenir di un regime ormai scomparso. Era la fine di un'epoca, il mondo era cambiato, aperto per sempre. 

E' passato un quarto di secolo da quel giorno. Il mondo è ulteriormente cambiato. Ci sono state guerre, attentati, l'11 settembre, il terrorismo islamico, la globalizzazione, internet che ha ulteriormente accelerato il processo di unificazione della popolazione mondiale, contribuendo ad avvicinare le persone e ad uniformare abitudini, stili di vita e di consumo. Eppure in un mondo apparentemente senza barriere qualche "muro" esiste ancora. Quello della contrapposizione ideologica, dell'odio politico-religioso e culturale, della sperequata distribuzione della ricchezza, dell'indifferenza verso gli sconvolgimenti climatici che abbiamo causato e stiamo ancora causando (tutti sì) al pianeta. Ci sono i muri, sì, ma ci sono anche tante persone (giovani in particolare) armate di desiderio di libertà, che si impegnano a superare e picconare tutti gli ostacoli della società odierna. Per trasformare questi muri in vecchi cimeli, residuo di un'epoca chiusa. Come il muro di Berlino appunto.

02 agosto 2014

Caso Tavecchio

di Roberto Marino 
                                                                                           (foto www.calcioweb.eu)
Mogli e buoi dei paesi tuoi. Probabilmente dietro le parole a sfondo razzista di Carlo Tavecchio c'era questo pensiero tutto italiano, tuttavia giustificare una frase più che infelice, come quella pronunciata dal candidato al ruolo di presidente della Fgic, in nome della tutela di un principio (sulla cui validità si può poi sicuramente discutere), sarebbe un errore. Questo perché il ruolo che si appresterebbe a ricoprire è decisamente delicato per più di un motivo. Innanzitutto, è la figura di massima rappresentanza del calcio italiano nel mondo. La nostra immagine, la nostra credibilità e la nostra considerazione internazionali passano anche da qui. Secondariamente, un'associazione come la Figc non può permettersi di avere come massima autorità un tizio che adopera frasi a sfondo discriminatorio, perché altrimenti verrebbero meno i valori morali e culturali che lo sport deve trasmettere: rispetto degli altri, delle diversità, sano agonismo e altrettanto sana competizione. 

Sarà pur vero che su quella battuta è stato montato un caso mediatico, sarà altrettanto vero che si è cercato di sfruttarla per consumare lotte intestine di potere all'interno della federazione, ma l'errore rimane evidente. Che poi, a ben vedere, la concezione degli stranieri come «mangia banane» - tanto per citare testualmente - è anche storicamente anacronistica, oltre che logicamente priva di senso. Si poteva comprendere, ma non giustificare, in un contesto passato, di qualche decennio fa, quando l'Europa dei popoli era ancora un sogno di pochi. Oggi che la mescolanza etnica e culturale è una realtà, certe resistenze ultra-nazionalistiche rimangono residui del passato. 

Che Tavecchio non fosse proprio un eccellente comunicatore lo aveva già dimostrato qualche mese addietro, quando in un'intervista concessa alla trasmissione Report disse: «Finora si riteneva che la donna fosse un soggetto handicappato rispetto al maschio sotto l'aspetto della resistenza, del tempo, dell'espressione atletica. Invece abbiamo riscontrato che sono molto simili». Questa la precisazione chiarificatrice, chiesta dalla giornalista, alle parole pronunciate immediatamente prima, che suonavano altrettanto spinte: «Noi siamo protesi a dare una dignità anche sotto l'aspetto estetico alla donna nel calcio». Tavecchio sociologo insomma, antropologo e comunicatore non proprio illuminati. 

Una lancia però - magari meglio una freccia - in suo favore bisogna pur spezzarla. Seppure in un modo non proprio elegante e rispettoso e comunque del tutto personale, Tavecchio solleva un problema esistente nel mondo del calcio: la scomparsa del talento nostrano. La cosa si è resa molto evidente durante questi mondiali. La nazionale italiana è stata, tra le altre cose, carente dal punto di vista dei giocatori di qualità, di eccellenze tutte italiane. Scelte tecniche certamente, ma anche forse esiguità nei vivai giovanili, derivante da scelte manageriali dei club, spostate molto verso il mercato ed il risultato immediato. In questo modo però non si permette ai calciatori di essere valorizzati nei propri paesi di nascita e il calcio nazionale inevitabilmente si isterilisce. 

A questo punto, forse, un passo indietro sarebbe opportuno. Non solo per quanto detto sino ad ora, ma anche perché, se anche dovesse ottenere un numero sufficiente di voti per passare (voti che si stanno sempre di più riducendo), Tavecchio, dal punto di vista del suo nuovo ruolo, sarebbe un'"anatra zoppa". Sarebbe cioè esposto a continue polemiche, critiche, che ne sminuirebbero l'autorevolezza e di certo il nostro paese non merita un trattamento del genere. Siamo pur sempre una nazione come le altre e calcisticamente quattro volte campioni del mondo.

Spente le polemiche, i lavori per la nomina del presidente dovranno pur ripartire. Logicamente il clima che si respira nel mondo calcistico non è dei migliori e non sappiamo quanto questa situazione possa effettivamente giovare al nostro paese e a quello sport che da pulito, divertente e depositario di sani valori si è sempre di più trasformato in un mero strumento di business e di conflitto ai vertici. Sarà forse ingenuo, utopistico e perfino puerile pensarlo e dirlo, ma un calcio meno sporco e più trasparente tornerebbe ad essere, se non proprio lo sport più bello del mondo, qualcosa che gli si avvicina molto.

19 luglio 2014

Sabato in Poesia: "San Lorenzo" di Francesco De Gregori

Il 19 luglio 1943 la città di Roma, dichiarata poi città aperta quasi un mese dopo dal governo Badoglio, subì un terribile bombardamento ad opera della flotta aerea statunitense. Il quartiere San Lorenzo fu devastato dagli ordigni e, 39 anni dopo, Francesco De Gregori dedica all'accaduto un pezzo molto toccante, inserito nell'album Titanic
Accompagnato da una musica piuttosto leggera, il testo si apre con una metafora, apparentemente innocua ma in realtà decisamente tortuosa, che denuncia in maniera ermetica e velata - tipica dello stile del cantautore romano - l'assurdità dell'evento in corso. Infatti le bombe vengono paragonate alla neve che cade in luglio e l'immagine rimanda immediatamente ad una doppia paradossalità: l'impossibilità di una nevicata atmosferica in un mese estivo e la forzatura del paragone tra la neve, elemento che nell'immaginario collettivo conduce verso qualcosa di soffice, morbido e candido, e la caduta delle bombe, che causano fragore, violenza, morte, distruzione. Nella seconda e nella quarta strofa, troviamo un'allusione, qui decisamente più diretta e meno velata, al comportamento pilatesco di papa Pio XII nei confronti dei crimini compiuti durante il secondo conflitto mondiale. La discussione sull'effettivo atteggiamento tenuto dal pontefice (soprattutto in occasione del genocidio ebraico e delle efferatezze compiute dai nazisti) è ancora piuttosto dibattuto presso gli storici, ma De Gregori propende per una scelta di critica allusiva. Il papa viene infatti colto in un momento di raccoglimento, quasi di impotenza, che lo conduce ad osservare come un semplice spettatore di qualcosa molto distante da lui, nonostante la storia ci dica che quella stessa mattina raggiunse immediatamente la basilica di San Lorenzo fuori le mura, benedì i morti e distribuì del denaro ai superstiti. Nel ritornello troviamo poi l'accenno alla situazione sociale delle classi più disagiate, che si trovavano in difficoltà nel reperire i generi alimentari di prima necessità (costretti quindi a rivolgersi al mercato nero) e alla speranza di ripresa di una vita normale, fatta di abitudini consuete.
 
Cadevano le bombe come neve,
il diciannove luglio a San Lorenzo.
Sconquassato il Verano,
dopo il bombardamento.
Tornano a galla i morti
e sono più di cento.

Cadevano le bombe a San Lorenzo
e un uomo stava a guardare la sua mano.
Viste dal Vaticano
sembravano scintille,
l'uomo raccoglie la sua mano
e i morti sono mille.

E un giorno credi questa guerra finirà.
Ritornerà la pace e il burro abbonderà.
E andremo a pranzo la domenica fuori porta a Cinecittà.
Oggi pietà l'è morta,
ma un bel giorno rinascerà. 
E poi qualcuno farà qualcosa,
magari si sposerà.

E il Papa la mattina da San Pietro
uscì tutto da solo tra la gente.
E in mezzo a San Lorenzo
spalancò le ali,
sembrava proprio un angelo con gli occhiali.

E un giorno credi questa guerra finirà.
Ritornerà la pace e il burro abbonderà.
E andremo a pranzo la domenica fuori porta a Cinecittà.
Oggi pietà l'è morta,
ma un bel giorno rinascerà. 
E poi qualcuno farà qualcosa, 
magari si sposerà.

Francesco De Gregori


Francesco De Gregori (Roma, 1951) è un cantautore e musicista italiano. Si trasferisce molto piccolo a Pescara per via del lavoro del padre, bibliotecario, e dopo dieci anni ritorna nella sua città natale, Roma. Nel 1966 si reca a Firenze col fratello più grande per prestare soccorso agli alluvionati e nello stesso anno inizia a suonare la chitarra. Al Folkstudio di Roma, comincia le proprie esibizioni dal vivo e conosce diversi artisti emergenti, che successivamente diventeranno personaggi di successo tra cui: Caterina Bueno, Antonello Venditti, Mimmo Locasciulli, Ernesto Bassignano, Edoardo De Angelis, Giorgio Lo Cascio. Negli anni '70 arrivano i primi successi discografici e di critica con i famosissimi album Alice non lo sa, Francesco De Gregori (soprannominato poi La pecora, per la foto della copertina, che reca proprio un agnello inginocchiato) e il vendutissimo Rimmel. Nella primavera del 1976, durante un concerto a Milano, si ritrova ad essere "ostaggio" di alcuni militanti di estrema sinistra, che accusano il cantautore di essersi venduto al sistema economico borghese e di esibirsi solo per denaro. La situazione si risolve soltanto grazie all'intervento della polizia. Questo evento lo segna profondamente, tanto da fargli quasi decidere di ritirarsi dalla vita artistica, cosa che poi puntualmente non viene tradotta in realtà. Nel marzo del '78 sposa una sua compagna di liceo, Alessandra Gobbi, che gli dà alla luce due gemelli, Marco e Federico. Il '79 è l'anno della collaborazione con Lucio Dalla, da cui viene fuori il riuscitissimo tour Banana Repubblic, che consacrerà i due artisti presso il grande pubblico. L'evento, per la grande partecipazione e per l'organizzazione, segnerà una svolta nel rapporto tra l'artista e i fans, anticipando così i grandi concerti oceanici delle rockstars. Gli anni che seguono saranno coronati dai grandi album di successo, come Viva l'Italia, Titanic, La donna cannone, Canzoni d'amore, Prendere e lasciare e la famosissima Il bandito e il campione, scritto dal fratello Luigi Grechi. Gli anni '90 sono segnati da grandi successi come testimoniato dall'album Canzoni d'amorePrendere e lasciare, mentre i Duemila si aprono con Amore nel pomeriggio, che ottiene la Targa Tenco come miglior opera dell'anno a pari merito con Canzoni a manovella di Capossela, e con un tour a quattro con il vecchio amico Ron, Fiorella Mannoia e Pino Daniele. I successi continuano anche con l'album del 2005 Pezzi, che riceve un altro premio Tenco e la canzone Gambadilegno a Parigi, che viene votata come miglior canzone dell'anno dai lettori del quotidiano La Stampa. Il 2010 è l'anno della grande collaborazione con Dalla. A 31 anni dal fortunatissimo tour con l'amico e collaboratore di sempre, i due riescono a far letteralmente impazzire fans ed estimatori, realizzando il tutto esaurito in ogni tappa del tour e regalando emozioni. La collaborazione diventerà un disco, che prenderà lo stesso titolo dell'evento Work in Progress. L'ultimo album in studio del cantautore romano è invece Sulla strada, dai toni decisamente intimistici ed esistenziali, che rappresenta una sorta di bilancio degli otre 40 anni di carriera, successi e poesia di De Gregori.
La discografia di De Gregori comprende: Theorius Campus (con Venditti, 1972); Alice non lo sa (1973); Francesco De Gregori (1973); Rimmel (1974); Bufalo Bill (1976); De Gregori (1978); Viva l'Italia (1979); Titanic (1982); La donna cannone (1983); Scacchi e tarocchi (1985); Terra di nessuno (1987); Mira Mare 19.4.89 (1989); Canzoni d'amore (1992); Prendere e lasciare (1996); Amore nel pomeriggio (2001); Il fischio del vapore (2002); Pezzi (2005); Calypsos (2006); Per brevità chiamato artista (2009); Sulla strada (2012).

28 giugno 2014

28/06/1914 - 28/06/2014: uno sguardo a volo d'uccello.

di Roberto Marino
                                                                                           (foto www.magicoveneto.it)
E' passato un secolo, l'intera vita di un uomo, il distendersi nel tempo di tre, anche quattro generazioni. Esattamente il 28 giugno di cento anni fa, l'Europa saltava in aria. O meglio veniva accesa la miccia - l'uccisione, a Sarajevo, dell'erede al trono dell'impero austro-ungarico, l'Arciduca Francesco Ferdinando, ad opera del giovane studente irredentista bosniaco Gavrilo Princip - , che nel giro di un mese avrebbe mostrato il suo effetto detonante e fatto esplodere il Vecchio Continente.

Esplodere non tanto e non solo perché proprio in quell'anno scoppiò la Prima Guerra Mondiale, ma perché quell'evento segnò la fine di un mondo e l'inizio di un altro. Finiva la belle époque; finiva il secolo dei grandi ideali liberali, che avevano portato a rivoluzioni sociali e politiche importantissime (leggi l'unità d'Italia, l'unificazione tedesca, la fine dei regimi assoluti con tutto il corredo culturale, politico e giuridico che questi eventi hanno portato con loro); finivano i tre grandi imperi europei (austro-ungarico, tedesco e ottomano), Finiva un periodo secolare di eurocentrismo politico, economico e culturale; finiva la fiducia (quasi) religiosa nelle potenzialità infinite di dominio dell'uomo sul mondo della natura (il Titanic era affondato solo due anni prima, proprio lui, l'inaffondabile) e finiva la concezione della Storia come eterno ed infinito progresso per l'uomo.

Finiva tutto questo ed iniziava, meglio si rivelava, un mondo nuovo; non migliore o peggiore, semplicemente diverso. Cominciava infatti il mondo delle grandi ideologie politico-razziali, il mondo delle masse protagoniste della Storia, rappresentate, supportate ed aizzate dai grandi partiti politici, di massa appunto. Cominciava il mondo dell'imperialismo economico- finanziario, ma anche di un nuovo tipo di imperialismo politico. E ancora, cominciava il mondo delle grandi crisi finanziarie, della connessione e del collegamento globali, dell'"io ho ragione e tu hai torto, perché sei diverso da me" e delle armi di distruzione, anch'esse di massa.

Non solo morte e vita di vecchio e nuovo mondo però, ci fu anche ciò che si mantenne nel tempo. Ad esempio, rimasero intatti (o quasi) i principi della nazione e della nazionalità, ovvero della sovranità nazionale e del senso di appartenenza dei popoli ad una comunità di questo genere. Principi che vennero poi condensati e coniugati, a fine conflitto, nei Quattordici punti del presidente Wilson come autodeterminazione dei popoli - libertà riconosciuta a tutti i popoli di costituirsi come stati indipendenti - e che sancirono la pace. Almeno per il momento.

Poi ci furono il primo dopoguerra, i grandi totalitarismi, la Grande Crisi del '29, il Secondo Conflitto Mondiale, eventi che lo storico inglese Hobsbawm racchiude in un unico blocco temporale, che definisce, non a torto, "Età della catastrofe". E con la nascita dell'Onu e dopo l'esperienza traumatica della divisione del mondo in due blocchi, durante la Guerra Fredda, esperienza che schiacciò la vecchia Europa come fosse un cuscinetto, si cominciò a costruire, mattoncino dopo mattoncino, un progetto a vasto raggio. Un progetto che avrebbe dovuto portare, e che ancora viene rimandato nel tempo, ad un'Europa unita. Ciò che abbiamo adesso è soltanto un'Europa meno divisa, tuttavia l'obiettivo di Adenauer, Schuman, Monnet, De Gasperi era decisamente molto più prestigioso di quello fino ad ora raggiunto. Sottinteso, c'è ancora tanto da fare. 

C'è da superare la logica della sovranità nazionale senza rinunciare al proprio passato, alle proprie diversità culturali ed economiche, controbilanciando il tutto con la tutela reale dei diversi interessi in gioco ed evitando di nascondere la soddisfazione dei propri sotto il vessillo della tenuta del progetto. Il pericolo è reale ed è sempre in agguato. Se intendiamo però dimostrare a noi stessi ed alle generazioni future di aver imparato la lezione della Storia e non vogliamo che errori già fatti si ripetano, pur sotto altre forme e in diverse modalità, non basta solo l'impegno; è necessaria la riuscita. Certo, il primo è condizione necessaria ma non sufficiente, la seconda è un obbligo morale, civile, storico.

21 giugno 2014

L'Italia che arranca

di Roberto Marino                            
                                                                                                (foto Corriere della Sera)
Come una di quelle giornate storte che, nonostante si provi con tutto se stesso a far girare per il verso giusto, proprio non va. Può essere questa la metafora che meglio raffigura l'incontro di calcio disputato ieri dalla nostra nazionale, che ha insistito, provato e riprovato a pareggiare una partita non entusiasmante, ma che certo non doveva finire 1 a 0 per la Costa Rica. D'altra parte, se proprio non va, non va. Come quando appunto ci si sveglia male, con l'umore nero, e si intuisce al volo che la giornata da poco iniziata sarà uno di quei disastri colossali da cui, se si esce vivi, significa che ci sono diversi santi in paradiso che, tutto sommato, lavorano per noi.

Simbolo di questa nazionale che proprio non gira è, a mio modesto e profano avviso calcistico, Mario Balotelli. Il "SuperMario" nazionale, troppo super ma anche tanto italiano (soprattutto nei vizi più che nelle virtù), sta dimostrando di essere forse un buon "prodotto mediatico", ma non un giocatore talentuoso e di successo, né un campione. La sua incostanza, la sua inaffidabilità si misurano con il metro della mancanza di concretezza, che caratterizza le prestazioni di questo giocatore. Certo, non tutte le colpe di una sconfitta possono ricadere su un solo giocatore, e infatti la squadra di ieri non ha per nulla brillato, tuttavia un accattante che non segna o che lo fa ad intermittenza o che spreca le due o tre palle gol che gli capitano a tiro dimostra di non essere forse adeguato al clamore che gli piomba sulle spalle e di cui forse non riesce a sostenere adeguatamente il peso e la responsabilità. Sintesi: Balotelli sopravvalutato e non è forse un caso che il Milan vorrebbe cederlo in cambio di Mandzukic o Falcao.

Balotelli a parte, forse qualche errore tecnico è stato commesso da Prandelli, che sicuramente in passato ha mostrato molte virtù, ora sembra averci preso gusto ed essere diventato un po' troppo sperimentatore. Già nella partita d'esordio avevamo visto un Paletta lanciato lì in difesa come un gladiatore piuttosto magrolino e male armato contro i leoni inferociti di un Colosseo moderno, e un Chiellini in un ruolo anomalo; tutto sommato però è andata bene. Questa volta però, complice il caldo equatoriale a cui non siamo assolutamente abituati (nonostante gli allenamenti ad hoc per lenirne gli effetti, fatti nei giorni precedenti), un orario decisamente sconcio in cui giocare - ma il fuso orario è quello che è - e alcune scelte tecniche non proprio azzeccate - sempre a mio modestissimo e profano parere - hanno portato alla sconfitta.

E' vero che sia quando si vince che quando si perde (ma quando si perde in misura molto maggiore) tutti gli italiani si trasformano in commissari tecnici, al punto che il vero sport nazionale non smette di essere il calcio e diventa quello di "sentirsi allenatori per un giorno". E probabilmente anche io sto risentendo ora di questo costume molto nostrano, a cui aggiungo un atteggiamento andante verso la "forbice d'oro" - per usare un detto popolare, che allude al criticismo (non certo quello kantiano) esasperato - tuttavia avrei preferito avere fin dall'inizio Cassano, fantasista dietro le punte che, seppure non ha brillato ieri, ha comunque avuto qualche spunto interessante, e Immobile, ora in stato di grazia, al posto di uno spento Balotelli. E ancora, non avrei voluto vedere in campo Thiago Motta, che ieri ha registrato la sola presenza.

Gli avversari stanno invece dimostrando di essere una squadretta allegra, vivace, concreta e pragmatica, magari priva di grandi nomi ma in grado di fare risultato e soprattutto di crederci. Due caratteristiche che in fondo a noi sono mancate. Non tutto però è perduto. Siamo ancora in corsa per la fase finale di questi mondiali, ma logicamente bisognerà dare il massimo e sperare (noi tifosi), farlo (i giocatori), di vincere la prossima partita contro l'Uruguay di Cavani e Suarez, anche se in realtà basterebbe pure un pareggio per proseguire.

Forse questa Italia calcistica che arranca mostra di essere lo specchio di una nazione che, più globalmente parlando, fatica a riprendersi da una situazione di difficoltà culturale, politica, economica. Forse è un'Italia che non riesce a fare veramente gruppo, poco affiatata, stimolata e che ha smarrito la strada del bene collettivo. Forse. Per ritornare a vincere, dentro e fuori dal campo, servono coraggio, fiducia, grinta e voglia di fare. Ed è per questo che, nonostante tutto, dobbiamo continuare a sperare e ad impegnarci. Solo uniti si va avanti. 

18 giugno 2014

Elogio della bellezza

di Roberto Marino

"Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace", è la frase che riassume - magari molto sinteticamente, ma non certo male - il concetto moderno di bellezza. Non così dovevano pensarla ad esempio i Greci, in particolare gli artisti, per cui la bellezza aveva canoni piuttosto definiti oggettivamente. Bello era ciò che rispecchiava le proporzioni geometriche tra le parti e quando si tratta di geometria, si sa, c'è poco da interpretare. Poi arriva Platone e ci mette il suo carico metafisico da novanta con la concezione della bellezza come veicolo dell'idea del Bene e allora non si sfugge più.

Nel tempo l'idea di bellezza ha subito centinaia e centinaia di modifiche, perché in molti si sono chiesti cosa fosse e come andasse interpretata. Gli artisti rinascimentali hanno fatto scuola in questo ambito e allora ecco che ancora oggi chiunque non può che restare estasiato di fronte alla bellezza del David o del Mosè di Michelangelo, che si esplica nella precisione dei dettagli, nella muscolatura definita, simboli indiscussi di potenza. E ancora, il cammino dell'idea di bellezza si è arricchito non solo dei contributi di chi la bellezza l'ha "costruita" pragmaticamente (gli artisti) ma anche di chi l'ha teorizzata, come lo storico dell'arte Winckelmann, i filosofi Baumgarten e Kant, il quale la soggettivizza enormemente, filosoficamente parlando. 

Ma la bellezza ha mille declinazioni e il neoclassicismo ad esempio mostra come bello è tutto ciò che ha forme gentili, arcuate, dolci, raffinate. Esempi? Le Grazie, Amore e Psiche, La venere Italica, Paolina Borghese, Perseo, Venere e Adone di Canova, La fiducia in Dio di Lorenzo Bartolini, etc. 

L'Ottocento poi è stato un secolo bizzarro, spesso contraddittorio e infatti ci ha presentato come "bello" anche ciò che tradizionalmente era considerato brutto. Infatti, ci sogneremmo mai di non restare affascinati o completamente impassibili di fronte ad una poesia di Baudelaire, che raffigura luoghi maledetti, bordelli, donne lascive, contesti bohémien oppure rifiuteremmo mai un componimento di Leopardi solo perché raffigura una Natura insensibile maligna e cattiva? Si potrà obiettare che se brutto è il contenuto rappresentato in questi componimenti, bello è però il "contenitore", la forma poetica, la poesia in se stessa e questo è vero; tuttavia operare una separazione netta tra forma e contenuto non è un'operazione convincente né conveniente. Un'opera d'arte è il frutto di un insieme inscindibile tra "materia" e "forma", che vivono entrambe nella mente, nella fantasia, nella sensibilità dell'artista. 

E' in questo contesto che si è formato il concetto relativo di bellezza, che di strada ne ha fatta tanta ed è giunto sino alle porte della contemporaneità in tutte le sue sfaccettature. Ad esempio, consideriamo la concezione architettonica, in senso molto ampio (urbanistico, topografico) che si è avuta fino agli anni '50-'60 del XX secolo. Questa ci dà la cifra del senso estetico che si è avuto ad esempio durante tutta l'epoca industriale, che proprio negli anni del boom economico ha avuto il suo punto apicale. Dominio faustiano incontrastato dell'uomo sulla natura; desiderio di possesso e potenza; creazione di un habitat artificiale, nato dalla trasformazione della natura da qualcosa di selvaggio in qualcosa di addomesticato, artificiale; espansione illimitata del contesto abitato in lungo, in largo e in alto; in un solo concetto: idea della bellezza come grandezza, materia, enormità. 

Anche il concetto di bellezza, applicato alla figura umana (in particolare femminile), dello stesso periodo rivela questa stessa attenzione per la materia, la quantità. Le donne simbolo di fascino, sensualità, femminilità fino agli anni '60 sono state formose (Sophia Loren, Claudia Cardinale, per non parlare delle pin-up americane, che facevano bella mostra di sé sulle pagine delle riviste patinate, dedicate ad un pubblico più maturo). Ma tant'è: contesto in cui vai, usanze che trovi. 

Oggi invece, i canoni della bellezza (non solo femminili) sono decisamente cambiati. Le riviste e le agenzie di moda chiedono fisici esili (ma comunque sodi e simboli di salute, con una tendenza leggermente diversa rispetto alla bellezza anoressica anni '90); il dominio sul mondo in termini di espansione materiale si è decisamente attenuato e si è piuttosto orientato verso le menti, le emozioni, le persone. La pubblicità, il marketing, l'editoria, i mass media, internet si rivolgono alle idee delle persone e cercano di manipolarne la natura, diffondendo concetti, immagini, archetipi. E la bellezza è uno strumento fondamentale per farlo, tanto è vero che viene usata in maniera indiscriminata per far passare qualsiasi messaggio, molto spesso completamente avulso dal mezzo utilizzato.

Dopo un discorso su un tema così interessante e bello (si scusi il gioco di parole) come si può concludere se non affidandosi alle parole - un po' rivisitate ma mica poi tanto - dell'Elogio della follia dell'umanista Erasmo da Rotterdam, che descrive l'azione della Natura nel mondo come sana, equilibrata, previdenziale nel diffondere un pizzico di sana follia? Beh, si potrebbe anche aggiungere che la Natura ha infuso nel mondo una quantità infinita di bellezza sotto tutte le forme e per tutti i gusti. E poi cosa ha fatto? Ha dato a ciascuno di noi differenti e personali sensibilità e capacità di riscontrarne l'essenza in cose e aspetti diversi. E se non è Bellezza questa!