11 gennaio 2014

Un poeta con la chitarra

di Roberto Marino

Carattere schivo, una cultura vastissima, come testimonia chi ha avuto modo di parlare con lui, spirito arguto, grande sensibilità per la realtà nascosta, marginale, e un senso di libertà appagante, soddisfacente quanto pericoloso. Questo e molto altro ancora è stato Fabrizio De André, il primo poeta in Italia ad aver preso in mano una chitarra, il primo musicista e cantante e paroliere aver dimostrato di saper usare la penna come un poeta.

Poeta è infatti colui che riesce a rappresentare la realtà sotto una luce inconsueta attraverso la parola, dimostrando di padroneggiarla perfettamente, di conoscerne pienamente i significati intimi, le implicanze che possiede, le evocazioni e allusioni che suscita, i mondi che svela a chi legge o ascolta, di combinarla efficacemente e creativamente con altre.

Eppure De André ironizzava argutamente sulla definizione di poeta che gli veniva attribuita. Prendendo in prestito le parole di Benedetto Croce, che nell'Estetica scriveva che da ragazzini tutti provano a scrivere poesie, ma che poi continuano solo i veri poeti o i cretini, Fabrizio proseguiva aggiungendo che lui, per non sbagliare, si era rifugiato nella canzone.

Poeta però lo è stato veramente, nonostante le critiche, spesso dure, nonostante l'atteggiamento elitario degli storici della letteratura, i quali, non potendo ignorarlo, degradano i suoi testi a poesia popolare e fenomeno della cultura di massa del secondo Novecento, nonostante le apologie troppo a buon mercato.

Come nella buona tradizione poetica e letteraria anticonformista, in particolare quella francese da cui fu molto influenzato, De André fu genio ribelle e "maledetto", bohèmien nella vita come nell'arte. Frequentava i bassifondi di Genova pur appartenendo ad una famiglia di estrazione alto-borghese (il padre, Giuseppe, era professore, direttore di una scuola privata da lui fondata, manager e vicesindaco); era un nottambulo che passava le serate a fare scherzi, ridere, fare casino con gli amici della giovinezza - Paolo Villaggio su tutti - molto spesso tra le braccia crudeli dell'alcol; era attratto dal mondo reale nella sua crudezza e rifiutava con altrettanta forza e passione quello ipocrita e ovattato della cultura e della società di livello elevato della Genova degli anni '50-'60, specchio eloquente dell'Italia del boom economico.

Questo rifiuto, questa rabbia, questa attrazione per il brutto ma vero - di contro al bello troppo borghese e conformista - Faber (così chiamato da Villaggio per la sua passione per i pastelli della Faber-Castell) lo scopre ancora ragazzo nelle canzoni di George Brassens, cantautore allora molto famoso in Francia, nelle poesie di François Villon, poeta maledetto francese del XV secolo. Dopo aver assorbito quei contenuti, quell'atteggiamento nei confronti della vita, riesce a riversare tutto nei testi e nelle musiche delle sue canzoni, filtrati dalla sua sensibilità umana ed intellettuale e adattati al contesto in cui vive. Così riesce a superare le barriere dello spazio e del tempo e a restituire un'immagine della realtà scomoda ma reale. In questo modo nascono Il testamento, La Canzone di Marinella, Bocca di rosaLa ballata dell'eroe, La città vecchia, Via del campo, La ballata del MichéSi chiamava GesùPreghiera in gennaio, dedicata a Luigi Tenco morto suicida nel 1967 durante lo svolgimento del Festival di San Remo. 

I protagonisti di questi testi sono tutti antieroi, personaggi sconfitti dalla vita e ripudiati dalla società, ma «pur sempre figli / vittime di questo mondo» e De André è interessato a mostrare come la realtà vera sia proprio quella che vivono le prostitute, i poveri, i diversi, «chi viaggia in direzione ostinata e contraria» come dirà diversi anni dopo nella canzone Smisurata preghiera, il suo testamento spirituale.

Poi arrivano gli anni '70, la contestazione si fa più "politica" e anche De André in qualche modo risente del clima mutato. Album come la Buona novella, Non al denaro, non all'amore né al cielo e soprattutto Storia di un impiegato dimostrano la maturazione del suo pensiero poetico, la capacità di andare più in profondità su certe questioni e di dare organicità alle sue creazioni. Gli attacchi nei confronti del potere, della cultura dominante si fanno più decisi, tanto che De André può essere considerato da questo periodo in avanti un vero maestro del sospetto e un punto di riferimento della controcultura di stampo anarchico e libertario.

Molto si è detto sulle traduzioni, fatte di suo pugno, di canzoni Brassens, Dylan e Cohen e inserite nei suoi album, in particolare durante i periodi di crisi creativa. E' innegabile questo fatto, così come innegabili risultano la necessità di intense collaborazioni importanti con poeti e parolieri come Riccardo Mannerini, Giuseppe Bentivoglio, Massimo Bubola, Francesco De Gregori, Ivano Fossati, il ricorso ad ispirazioni e rifacimenti provenienti dal mondo letterario, rilette come necessità di appoggiarsi a qualcosa o a qualcuno. Per dirla con le parole parole di Enrica Rignon, prima moglie di De André: «Se lavori da solo vuol dire che sei un presuntuoso, se invece hai una persona ti confronti e discuti le tue insicurezze». Insicurezza, mania estrema di perfezionismo, che testimoniano la grande passione di quest'uomo per uno dei mestieri più belli del mondo, scrivere, e che non sminuiscono la capacità di lasciare la propria grande impronta e rielaborare in modo personale certe idee.

Quello che di più bello e quindi di poetico ci ha lasciato De André è il risultato di umanizzazione dei personaggi che si muovono nella realtà delle sue canzoni, sia in una direzione orientata verso l'alto che verso il basso. Nel primo caso, personaggi completamente discriminati e marginalizzati dalla culturale e dalla morale benpensante italiana, e relegati il una dimensione subumana, vengono tratti fuori dal nulla in cui annaspano e resi umani pur con tutti i loro difetti e problemi, che rimangono comunque incollati loro come una seconda pelle. Marinella e Bocca di rosa da prostitute nella realtà diventano personaggi illustri nel racconto: una principessa sfortunata, corteggiata dal suo principe azzurro ancora dopo la morte in circostanze misteriose, la prima; una dispensatrice di gioia, vitalità e piacere ad una comunità consumata dalla noia e dall'abitudine, la seconda. Nel secondo caso, l'umanizzazione compie il percorso inverso, per cui personaggi che nell'immaginario collettivo occupano un grado elevato vengono ridotti ad individui comuni. Ecco quindi Gesù Cristo, sua madre e suo padre diventare uomini e donne di cui si analizzano le debolezze. Stesso discorso vale per i personaggi della dimensione laica come Carlo Martello, celebrato dalla storia come fiero difensore della fede cristiana contro i musulmani miscredenti ed invasori e diventato, sotto l'occhio irriverente di Villaggio e De André che sembra spiare dal buco di una serratura senza tempo, un normale uomo in preda a desideri sessuali insopprimibili dopo un lungo periodo di astinenza.  

Tutte le cose però hanno una fine e quelle belle, come lo stesso De André sapeva bene, per ironia della sorte scompaiono molto prima delle altre. Faber è stato stroncato, all'età ancor giovane di 58 anni, da un tumore ai polmoni, probabilmente causato da quella sigaretta che non si staccava mai dalla sua bocca, al punto da non capire dove finisse l'una e dove iniziasse l'altra. Chissà come la sua penna, le sue note avrebbero raccontato questi anni difficili, lenti e stabili eppure veloci e in continuo cambiamento, incerti, senza punti di riferimento. Si sente proprio la mancanza di una voce scomoda, arguta, graffiante.

0 commenti :

Posta un commento