di Roberto Marino
Certo che ne sono passati di scatti - pardon di autoscatti - da quando è nato il primo selfie della storia, anche se all'epoca non aveva neppure un nome.
La genesi di questa pratica, che oggi viene persino accolta nel novero delle definizioni dell'Oxford Dictionary, ha nobili natali e risale nientemeno che alla Granduchessa Anastasija Nikolaevna Romanova, figlia dell'ultimo zar di Russia. Sicuramente la tredicenne quartogenita di Nicola II non poteva immaginare nel lontano 1914, all'epoca del galeotto scatto effettuato con la sua Kodak Brownie, che un secolo dopo sarebbe divenuta l'antesignana di una moda così invasiva e pervasiva. Eppure su questa origine sembrano non esserci dubbi; infatti nella lettera che accompagna la foto si legge: «Ho scattato questa foto di me stessa guardandomi allo specchio. Era molto difficile perché le mie mani tremavano».
Oggi non tremano più le mani degli amatoriali fotoreporter, che immortalano se stessi nelle situazioni più disparate e spesso strampalate. Anzi, tutti loro ostentano una certa sfrontatezza nell'esibire corpi seminudi sui social media o nel testimoniare visibilmente qualsiasi evento della loro giornata, esponendosi a commenti e critiche di amici e sconosciuti. Ma il prezzo del "successo", si sa, non può essere basso, quindi ben venga tutto, purché se ne parli.
Eppure c'è qualcosa che trema ancora in queste persone, qualcosa di instabile, e non appartiene all'ambito fisico. Un recente studio scientifico, pubblicato dalla American Psychiatry Association, ritiene la moda del selfie un vero e proprio disturbo psichico, definito selfite, e ne individua tre livelli o gradi di gravità. Secondo il rapporto degli psichiatri americani, si passa dalla selfite borderline (malessere di chi fotografa se stesso almeno tre volte al giorno, ma non pubblica le proprie foto su internet) alla selfite acuta (da cui sarebbe affetto chi scatta almeno tre foto al giorno e sente la necessità di condividerle on line) fino alla selfite cronica (il disturbo di chi scatta da sei foto in su al giorno e le pubblica incontrollabilmente sui social media).
Al di là di quanto sostiene l'equipe medica e dell'attendibilità dello studio, basta poco per capire che la necessità di immortalare se stessi e lanciare il tutto in balia delle fauci mediatiche istantanee nasconde una preoccupante mania di esibizionismo, di desiderio di farsi notare, mettersi in mostra; da qui poi a comprendere che dietro un simile comportamento ci sia molta insicurezza, da cui consegue un bisogno di approvazione sociale, il passo è breve.
Già nei primi anni Venti del secolo scorso, lo psicoanalista svizzero allievo di Freud, Carl Gustav Jung, parlava di tipi psicologici estroversi ed introversi. I primi - che in questa sede ci interessano particolarmente - vengono classificati come coloro che a livello conscio concentrano la propria attenzione sul mondo esterno, mentre inconsciamente tendono a concentrare la propria attenzione sull'io. Nell'epoca della ipercomunicazione immediata, della diffusione virale a macchia d'olio di contenuti audio-video, in cui basta un semplice telefonino per essere in relazione continua con il mondo, il tipo dell'estroverso è decisamente cambiato e sarebbe interessante recuperare quella categoria e adattarla al nuovo contesto psico-socio-culturale.
Lo storico inglese Eric J. Hobsbawm, che nell'opera Il secolo breve compie una analisi panoramica sul Novecento, lo definisce come il secolo dell'uomo della strada, «dominato da forme d'arte prodotte dall'uomo comune e a lui destinate». Ora, se è vero che sarebbe inappropriato definire forma artistica una pratica come il selfie, perché dell'arte mancano tutte le caratteristiche, in ogni caso essa testimonia come questo processo di concentrazione sul proprio io e di diffusione della propria intimità sia divenuto sempre più necessario, sentito, seppure, in questo caso, ad un livello leggero, superficiale.
Detto ciò, nessuno vuole demonizzare le nuove tecnologie, né bandirne l'utilizzo ludico. Internet è un mezzo di comunicazione straordinario. La logica con cui è stato progettato, costruito e sviluppato è decisamente rivoluzionaria. Se però lo si usasse in maniera un po' più consapevole e intelligente, sfruttando le enormi potenzialità che possiede, si riuscirebbe a dare un contributo significativo al miglioramento della società e si lascerebbe un indelebile segno positivo nella Storia. Migliorando la società, infatti, miglioriamo noi stessi. Comunicare contenuti culturali, informativi, artistici, valoriali, modi di leggere ed interpretare la realtà, suscitare dibattito, confrontarsi e scambiarsi idee per incontrare culture diverse è sicuramente un passo in questa direzione. Passo compiuto, per giunta, facendo parlare di sé. Anzi, raccontandosi in prima persona.
Già nei primi anni Venti del secolo scorso, lo psicoanalista svizzero allievo di Freud, Carl Gustav Jung, parlava di tipi psicologici estroversi ed introversi. I primi - che in questa sede ci interessano particolarmente - vengono classificati come coloro che a livello conscio concentrano la propria attenzione sul mondo esterno, mentre inconsciamente tendono a concentrare la propria attenzione sull'io. Nell'epoca della ipercomunicazione immediata, della diffusione virale a macchia d'olio di contenuti audio-video, in cui basta un semplice telefonino per essere in relazione continua con il mondo, il tipo dell'estroverso è decisamente cambiato e sarebbe interessante recuperare quella categoria e adattarla al nuovo contesto psico-socio-culturale.
Lo storico inglese Eric J. Hobsbawm, che nell'opera Il secolo breve compie una analisi panoramica sul Novecento, lo definisce come il secolo dell'uomo della strada, «dominato da forme d'arte prodotte dall'uomo comune e a lui destinate». Ora, se è vero che sarebbe inappropriato definire forma artistica una pratica come il selfie, perché dell'arte mancano tutte le caratteristiche, in ogni caso essa testimonia come questo processo di concentrazione sul proprio io e di diffusione della propria intimità sia divenuto sempre più necessario, sentito, seppure, in questo caso, ad un livello leggero, superficiale.
Detto ciò, nessuno vuole demonizzare le nuove tecnologie, né bandirne l'utilizzo ludico. Internet è un mezzo di comunicazione straordinario. La logica con cui è stato progettato, costruito e sviluppato è decisamente rivoluzionaria. Se però lo si usasse in maniera un po' più consapevole e intelligente, sfruttando le enormi potenzialità che possiede, si riuscirebbe a dare un contributo significativo al miglioramento della società e si lascerebbe un indelebile segno positivo nella Storia. Migliorando la società, infatti, miglioriamo noi stessi. Comunicare contenuti culturali, informativi, artistici, valoriali, modi di leggere ed interpretare la realtà, suscitare dibattito, confrontarsi e scambiarsi idee per incontrare culture diverse è sicuramente un passo in questa direzione. Passo compiuto, per giunta, facendo parlare di sé. Anzi, raccontandosi in prima persona.
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