Sabato in Poesia: "Vendemmia" di Marino Moretti

Vendemmia di Marino Moretti è una poesia tratta dalla raccolta Sentimento: pensieri, poesie...

Roma capitale d'Italia

Chissà quanti studenti ed ex studenti liceali si sono trovati a tradurre la famosissima frase del De Oratore...

L'origine della crisi finanziaria statunitense

La crisi che ha interessato i mercati finanziari dei paesi maggiormente sviluppati, e che gli esperti...

Così cinque anni fa cominciava la crisi...

"Era una notte buia e tempestosa...", questo è l'incipit dell'interminabile romanzo che Snoopy...

Sabato in Poesia: Estratto di "Beppo, racconto veneziano" (George Gordon Lord Byron)

Beppo è un poemetto satirico in ottave ariostesche (secondo lo schema metrico ABABABCC), attraverso il quale Byron affronta...

30 giugno 2013

L'eterno ritorno dell'uguale

di Roberto Marino


Anno 2034. Berlusconi deceduto da poco (nessuno me ne voglia, ma a tutti i nati prima o poi tocca morire - come scriveva il saggio Seneca) ma non per sopraggiunta vecchiaia - in fondo è ancora un giovincello - bensì per una festa un po' troppo "elegante" a palazzo Grazioli. Campagna elettorale per le nuove elezioni parlamentari, senza elezione diretta del premier né presidenzialismo; è ancora troppo presto. I quadri dirigenti del Pdl nel panico. 

Dopo sei ore di intensa riunione, a qualcuno (la pasionaria ormai invecchiata Mara Carfagna) viene l'idea di allestire una seduta spiritica, allo scopo di riportare in vita lo spirito del Presidente ed evitare lo sfascio dell'Italia. I personaggi ci sono tutti. La medium è presto trovata, ovviamente Daniela Santanchè. Ignazio La Russa (è intanto rientrato nel partito madre) è un componente essenziale: chi meglio di lui può mettere a proprio agio lo spirito del Cavaliere? Tra spiriti ci si capisce. E poi i fedelissimi: Alfano con qualche capello in più, l'ideatrice Carfagna, Brunetta (la battuta sarebbe troppo facile), Verdini ancora in forma (non lo era vent'anni prima, figuriamoci ora), Sandro Bondi, già in estasi contemplativa da tempo immemore.

Tutto è pronto dunque per la rievocazione. Il tavolino su cui creare la catena umana c'è, la medium è stata trovata, i partecipanti pure, l'ambiente riservato e le luci soffuse di candele anche. Si comincia. Il primo tentativo non va. La medium riprova. Ancora nulla. La Russa allora perde la pazienza, si incazza e sbraita un: «Ma guando gazzo si 'ppresenda Berlusconi? Mi sembra tutta una bbagliacciata!»«Taci! - lo zittisce la Santanché - Non dire così, o il Presidente non appare!».

Ma ad un tratto, ecco, la medium comincia ad essere percorsa da un fremito violento. E' invasata, ingrifata - pardon - sconvolta. Il Sommo spirito appare e dice: «Cribbio! Ma chi è che mi disturba!? Io me la stavo spassando nel girone dei lussuriosi!». «Presidente, deve tornare - dice un timido Alfano - qui la campagna elettorale va malissimo! Siamo perduti! C'è il rischio che vincano i comunisti!»«Non ne se parla nemmeno!» - risponde seccato. «Ma Presidente - tutti insieme - o torna lei o tutti a casa»«E va bene - (con somma benevolenza e grande spirito di sacrificio) risponde il Cavaliere - ma ad una condizione. Voglio una vergine con cui... insomma ci siamo capiti, no? Con una vergine, sapete, non ho mai avuto il piacere». Detto ciò, il Cavaliere congeda i suoi adepti, con l'accordo di rievocarlo a missione compiuta. 

A questo punto però, nasce il problema! Dove si trova in Italia una ragazza vergine che abbia almeno terminato le scuole medie? In fondo, un limite bisogna pure metterlo, no? Dopo un'estenuante ricerca, comunque, il piano va in porto. La ragazza si trova e la seduta va a buon fine. (Risparmiamo i dettagli scabrosi di mistico congiungimento. In fondo, un po' di decenza bisogna pure averla o quantomeno mostrarla). 

Terminato l'atto o-sceno in luogo privato, il Presidente annuncia si suoi: «Grazie, ragazzi! Ci voleva proprio. Il vostro combattente è tornato! Adesso si ricomincia. Forza, Italia!».

29 giugno 2013

Sabato in Poesia: "La bellezza" (Charles Baudelaire)



Sono bella, o mortali: una chimera
di pietra! Tutti il mio seno ha estenuato,
ma al poeta un amore ha ispirato
tacito, eterno come la materia.

Ho il trono nell'azzurro, sfinge oscura,
ho il cuore di neve, del cigno il biancore,
odio il gesto che le linee scompone,
al riso e al pianto estranea è la mia natura.

Vedendomi in atteggiamenti fieri
ispirati a scultorei monumenti,
i poeti si danno a studi austeri.

Per stregare così docili amanti
ho, specchi dove il bello si discerne,
gli occhi, i miei occhi dalle luci eterne.

Charles Baudelaire

25 giugno 2013

Classici da (A)mare: "Lolita" di Vladimir Nabokov

di Roberto Marino


«Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta. 
«Era Lo, semplicemente Lo al mattino, ritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia era sempre Lolita».

Non c'è modo migliore per introdurre una qualsiasi riflessione su questo splendido libro, che "servirsi" direttamente delle parole dell'autore. Parole dell'incipit per giunta, che racchiudono magnificamente, con tutte le loro sfumature, l'intero contenuto del romanzo. 

Sì, perché Lolita è un romanzo d'amore, di un amore intenso, come solo un amore perverso, ossessivo, malato può esserlo fino in fondo. Storia d'amore e sofferenza quella scritta da Nabokov, in cui - come in tutte le storie d'amore finite male che si rispettino - c'è un dominatore e un dominato, un carnefice ed una vittima, ma con una differenza rispetto alle altre: in questo caso non si capisce chi sia l'uno e chi l'altro. 

Ad una prima analisi, il carnefice sembrerebbe il "vecchio" Humbert, professore di letteratura francese alla soglia dei qurant'anni, innamorato (sì, il suo è proprio amore) di una ragazzina di dodici anni, che riesce a possedere, irretire. E non inverto a caso l'ordine logico dei due accadimenti; è solo che a tutt'ora, pensandoci bene, non saprei dire quale azione delle due avvenga effettivamente prima. Strano a dirsi, ma è la magia di questo libro che opera simili modifiche nell'ordine naturale delle cose. 

Humbert carnefice dunque, perché adulto, ma anche vittima. Di se stesso, dei propri conflitti, traumi adolescenziali irrisolti, ma anche della stessa Lolita. Nonostante la ragazzina subisca gli abusi, le richieste, le pretese di questo patrigno (Humbert sposa la madre di Lolita, che morirà poco più tardi, allo scopo di stare accanto alla ragazza) un po' troppo ingombrante, si dimostra infatti tutt'altro che ingenua e sprovveduta. Sfrutta sapientemente - pur non uscendo vincitrice né dalla storia, né dalla propria vita - il proprio forte ascendente, che intuisce immediatamente di possedere sul povero professor Humbert, per ottenere ciò che vuole, o almeno per tentare di farlo. 

Personaggio complesso, sfaccettato e per questo affascinante quello di Lolita, a metà strada tra la scaltrezza adulta e l'ingenuità post infantile di una ragazzina dell'America a cavallo tra la fine degli anni '40 e l'inizio dei '50. Un'America che si avvia verso la strada dell'opulenza economica, della piena realizzazione della società di massa, con i suoi miti cinematografici, le sue stelle della televisione, la creazione di modelli culturali decisamente attraenti per un'adolescente che vive i propri anni e che si trova immersa in un mondo di luci scintillanti. Luci che illuminano il "sogno americano". 

Se c'è una cosa però che rende questo libro un vero capolavoro è il linguaggio. Preciso, articolato, ricco, appassionato, potente. Le note descrittive sono veramente affascinanti e permettono al lettore di rivivere i pensieri, le emozioni, le esperienze, i turbamenti del professor Humbert, in preda ad un lucido delirio lungo circa cinque anni. 

Un libro veramente bello quindi quello di Lolita - con il colpo di scena finale per gli amanti delle sorprese - che non si legge, bensì si divora, con quell'avidità, quella smania, quel desiderio di possesso, che colpisce tutti i lettori voraci e che instaura quasi una "corrispondenza d'amorosi sensi", un sentimento d'empatia nei confronti del povero Humbert, che porta ad essere indulgenti con lui. 

23 giugno 2013

Wimbledon, l'erba sacra, i suoi eroi

di Tommaso Andreoli


L’avevamo lasciato così: vestito di bianco dalla testa ai piedi con l’orologio al polso (come sponsor caldamente consiglia) coccolarsela, baciarsela, alzarla al cielo, farla girare come fosse una bambola quella settima figlia dorata alta quarantacinque centimetri, mentre dagli spalti del centrale scendevano giù scroscianti gli applausi, roboanti, quasi venisse a piovere di nuovo, più intensamente e prepotentemente di quanto già avvenuto qualche ora prima, nel bel mezzo del secondo set, quando, da torneo all’aperto, Wimbledon si era trasformato, per la prima volta nella sua ultrasecolare storia, in sfida finale indoor. E si sa, a tetto coperto – shhh, do not disturb, genius at work! – il Re non vuol sentire storie: “Avete chiuso tutto? Be’, allora qui a casa mia, a casa FedeREr non voglio discussioni: comando io!”. 

E insomma, da dieci anni a questa parte la litania è la solita; la domanda di rito che tutti – addetti ai lavori e non – si fanno è sempre la stessa: riuscirà Roger a ripetersi per l’n-esima volta (con n uguale 8)?

Certo, alla veneranda età di quasi 32 anni (un arzillo vecchietto si direbbe!) e con quei cyborg tutto muscoli sprigionanti una potenza tale che ad ogni colpo la pallina, viaggiando a velocità prossime al quelle della luce, cambia massa (E=mc2) – e, aggiungo io, cambia pure forma, tendendo vistosamente ad appiattirsi (saranno mica Holly e Benjii?) – non è proprio un giochetto da ragazzi. Tieni poi pure presente che loro (i cyborg) sono all’apice della carriera e lui (il Maestro) quella (la carriera) la sta chiudendo; senza dimenticare ancora il solito mal di schiena che ti affligge proprio quando non deve, che se non ti ricordi di essere il dio del tennis sceso tra noi per mostrarci cosa significhi tenere una racchetta in mano e danzare con le punte sull’erba, sferrando diritti e rovesci che fermano le leggi della fisica e ne riscrivono di nuove e più eleganti, quasi rischi di essere buttato fuori al terzo turno da un Benneteau qualsiasi, e insomma, voilà, ti accorgi di quale impresa ha fatto lo svizzero, eguagliando due mostri sacri come Renshaw e Sampras. 

Ad ogni modo, quest’anno è quest’anno, un altro anno, un altro torneo, che tuttavia, a meno di grossissime sorprese, sembra perlomeno somigliare ancora al 2012 o al 2011 o al 2010…, perché i favoriti rimangono sempre loro, i Fab Four: Novak Djokovic (numero 1 del mondo), Andy Murray (il cocco di casa), Rafa Nadal (fresco vincitore e recordman di vittorie al Roland Garros) e, appunto, King Roger. Dietro, ovviamente, il vuoto. 
Però occhio: al meglio dei cinque, con un momento che ti sciogli come un gelato sotto un sole spacca pietre, e il secondo dopo che devi coprirti, aprire l’ombrello e prepararti a salire con Noè sull’arca, se non sei con la testa fissa dentro il match, ci vuol poco a vedersi di rientro sulla via di casa, valigie in mano, che imprechi perché non sai più dove hai messo le chiavi.

Nel tempio del tennis possono metter piede solo i migliori; solo i migliori dei migliori, i più valorosi, temerari possono alzarla, baciarla, strapazzarsela e andarci a letto, sapendo che i posteri li ricorderanno grandi, immensi eroi di un’epoca che sui prati di inglesi di Wimbledon sembra essersi fermata all’età classica in cui gli abiti avevano un solo colore: il bianco.

Perciò, in bocca al lupo ai contendenti, e buon divertimento invece a voi, a noi, che ci godremo, in barba a tutti gli impegni terreni che potranno attendere, queste due settimane di sacro sport.

22 giugno 2013

Sabato in Poesia: "Crudele addio" (Vincenzo Cardarelli)



Ti conobbi crudele nel distacco.
Io ti vidi partire
come un soldato che va alla morte
senza pietà per chi resta.
Non mi lasciasti nessuna speranza.
Non avevi, in quel punto,
la forza di guardarmi.
Poi più nulla di te, fuorché il tuo spettro,
assiduo compagno, il tuo silenzio
pauroso come un pozzo senza fondo.
Ed io m’illudo
che tu possa riamarmi.
E non fo che cercarti, non aspetto
che il tuo ritorno,
per vederti mutata, smemorata,
aver noia di me che oserò farti
qualche amoroso e inutile dispetto.

Vincenzo Cardarelli

21 giugno 2013

Classici da (A)mare: Le "Satire" di Orazio

di Roberto Marino

Un "classico" rimane sempre attuale proprio in quanto classico. Non è una contraddizione e neppure un gioco di parole, ma solo la verità dei fatti. La stessa verità, detta con la stessa lucidità di cui Quinto Orazio Flacco si serve per scrivere le proprie Satire, un libello diviso in due parti e composto da dieci satire nella prima (nel primo libro, come si soleva dire nell'antichità) e di otto nella seconda.

Opera semplice e complessa quella di Orazio, a cui ci si può accostare attraverso diverse chiavi di lettura. Si possono infatti leggere le diciotto satire, gustando la sottile ironia che le caratterizza - lasciandosi coinvolgere dallo stile arguto dell'autore e dall'eternità di riflessioni senza tempo - oppure facendo sì tutto questo, ma cogliendo nel frattempo le dettagliate descrizioni della società romana del I secolo a.C., che emerge da uno sfondo più in superficie di quello che si crede. 

E allora ecco che i vizi, i difetti degli uomini, che il poeta evidenzia senza saccenteria né bigottismo, diventano caratteristiche appartenenti a tutti gli uomini, autore compreso, sancendo la sorprendente attualità del poeta latino. Con grande modernismo infatti Orazio riesce ad evidenziare «la consapevolezza del discrimine sottilissimo, eppure indubitabile, tra bene e male, tra una vita investita secondo giustizia e una dissipata senza criterio alcuno», come dice Roberto Galaverni nella prefazione all'edizione Bur, collana Classici del pensiero libero. 

Ma se i vizi colgono tutti gli uomini, come è possibile riuscire a districarsi in un mondo difficile, in una società pericolosa senza rimanerne schiacciati? Sicuramente attraverso la filosofia, nella versione di un epicureismo moderato e consapevole che non risparmia qualche  frecciatina al più morigerato e poco realistico stoicismo. Il filo conduttore della poesia oraziana, ma anche e soprattutto della sua poetica e del suo epicureismo realistico, diventa allora la moderazione; la logica del giusto mezzo che gli fa pronunciare una delle sentenze divenute memorabili: «est modus in rebus» («c'è nelle cose una misura»). 

Proprio la moderazione, il senso della misura, conquistati attraverso l'ironia, la vis comica,  e finalizzati al raggiungimento della giusta dimensione della vita, rendono la scrittura e i ragionamenti di Orazio "esistenzialmente" attuali e dunque vicini alla nostra sensibilità di uomini contemporanei. Al di là dei problemi contingenti legati al periodo infatti, quelli più profondi, più interiori, più umani diventano simili ai nostri, così come simile è lo sforzo del poeta di fondere insieme finzione letteraria (che tanto finzione poi non è) e vita reale, creando un mix equilibrato, divertente e gustoso di stile, racconto, contenuto.

15 giugno 2013

Sabato in Poesia: "Le nuvole" (Fabrizio De André)



Vanno 
vengono 
ogni tanto si fermano 
e quando si fermano 
sono nere come il corvo 
sembra che ti guardano con malocchio 

Certe volte sono bianche 
e corrono 
e prendono la forma dell'airone 
o della pecora 
o di qualche altra bestia 
ma questo lo vedono meglio i bambini 
che giocano a corrergli dietro per tanti metri 

Certe volte ti avvisano con rumore 
prima di arrivare 
e la terra si trema 
e gli animali si stanno zitti 
certe volte ti avvisano con rumore 

Vanno 
vengono 
ritornano 
e magari si fermano tanti giorni 
che non vedi più il sole e le stelle 
e ti sembra di non conoscere più 
il posto dove stai 

Vanno 
vengono 
per una vera 
mille sono finte 
e si mettono li tra noi e il cielo 
per lasciarci soltanto una voglia di pioggia.

Fabrizio De André

08 giugno 2013

Sabato in Poesia: "'A livella" (Antonio De Curtis, in arte Totò)



Ogn'anno, il due novembre, c'è l'usanza
per i defunti andare al Cimitero.
Ognuno ll'adda fa' chesta crianza;
ognuno adda tené chistu penziero.

Ogn'anno, puntualmente, in questo giorno,
di questa triste e mesta ricorrenza,
anch'io ci vado, e con dei fiori adorno
il loculo marmoreo 'e zi' Vicenza.

'St'anno m'è capitata 'n'avventura...
dopo di aver compiuto il triste omaggio.
(Madonna!), si ce penzo, e che paura!,
ma po' facette un'anema e curaggio.

'O fatto è chisto, statemi a sentire:
s'avvicinava ll'ora d''a chiusura:
io, tomo tomo, stavo per uscire
buttando un occhio a qualche sepoltura.

"QUI DORME IN PACE IL NOBILE MARCHESE
SIGNORE DI ROVIGO E DI BELLUNO
ARDIMENTOSO EROE DI MILLE IMPRESE
MORTO L'11 MAGGIO DEL '31".

'O stemma cu 'a curona 'ncoppa a tutto...
... sotto 'na croce fatta 'e lampadine;
tre mazze 'e rose cu 'na lista 'e lutto:
cannele, cannelotte e sei lumine.

Proprio azzeccata 'a tomba 'e 'stu signore
nce stava 'n'ata tomba piccerella,
abbandunata, senza manco un fiore;
pe' segno, sulamente 'na crucella.

E ncoppa 'a croce appena se liggeva:
"ESPOSITO GENNARO NETTURBINO":
guardannola, che ppena me faceva
'stu muorto senza manco nu lumino!

Questa è la vita! 'ncapo a me penzavo...
chi ha avuto tanto e chi nun ave niente!
'Stu povero maronna s'aspettava
ca pur all'atu munno era pezzente?

Mentre fantasticavo 'stu penziero,
s'era ggià fatta quase mezanotte,
e i' rimanette 'nchiuso priggiuniero,
muorto 'e paura... 'nnanze 'e cannelotte.

Tutto a nu tratto, che veco 'a luntano?
Ddoje ombre avvicenarse 'a parte mia...
Penzaje: 'stu fatto a me mme pare strano...
Stongo scetato... dormo, o è fantasia?

Ate che fantasia; era 'o Marchese:
c''o tubbo, 'a caramella e c''o pastrano;
chill'ato apriesso a isso un brutto arnese;
tutto fetente e cu 'na scopa mmano.

E chillo certamente è don Gennaro...
'o muorto puveriello... 'o scupatore.
'Int 'a stu fatto i' nun ce veco chiaro:
so' muorte e se ritirano a chest'ora?

Putevano sta' 'a me quase nu palmo,
quanno 'o Marchese se fermaje 'e botto,
s'avota e tomo tomo... calmo calmo,
dicette a don Gennaro:"Giovanotto!

Da Voi vorrei saper, vile carogna,
con quale ardire e come avete osato
di farvi seppellir, per mia vergogna,
accanto a me che sono blasonato!

La casta è casta e va, sì, rispettata,
ma Voi perdeste il senso e la misura;
la Vostra salma andava, sì, inumata;
ma seppellita nella spazzatura!

Ancora oltre sopportar non posso
la Vostra vicinanza puzzolente,
fa d'uopo, quindi, che cerchiate un fosso
tra i vostri pari, tra la vostra gente"

"Signor Marchese, nun è colpa mia,
i' nun v'avesse fatto chistu tuorto;
mia moglie è stata a ffa' 'sta fesseria,
i' che putevo fa' si ero muorto?

Si fosse vivo ve farrei cuntento,
pigliasse 'a casciulella cu 'e qquatt'osse
e proprio mo, obbj'... 'nd'a 'stu mumento
mme ne trasesse dinto a n'ata fossa".

"E cosa aspetti, oh turpe malcreato,
che l'ira mia raggiunga l'eccedenza?
Se io non fossi stato un titolato
avrei già dato piglio alla violenza!"

"Famme vedé... - piglia 'sta violenza...
'A verità, Marché, mme so' scucciato
'e te senti; e si perdo 'a pacienza,
mme scordo ca so' muorto e so' mazzate!...

Ma chi te cride d'essere... nu ddio?
Ccà dinto, 'o vvuò capì, ca simmo eguale?...
... Muorto si' tu e muorto so' pur'io;
ognuno comme a 'n'ato è tale e quale".

"Lurido porco!... Come ti permetti
paragonarti a me ch'ebbi natali
illustri, nobilissimi e perfetti,
da fare invidia a Principi Reali?".

"Tu qua' Natale...Pasca e Ppifania!!!
T''o vvuò mettere 'ncapo... 'int''a cervella 
che staje malato ancora 'e fantasia?...
'A morte 'o ssaje ched'è?... è una livella.

Nu rre, nu maggistrato, nu grand'ommo,
trasenno 'stu canciello ha fatt' 'o punto
c'ha perzo tutto, 'a vita e pure 'o nomme:
tu nu t'hè fatto ancora chistu cunto?

Perciò, stamme a ssentì... nun fa' 'o restivo,
suppuorteme vicino - che te 'mporta?
'Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive:
nuje simmo serie... appartenimmo 'a morte!"

Totò

Conservator-parlamentarismo

di Roberto Marino

Una vecchia abitudine ormai in disuso, quella di sfogliare le pagine quasi ingiallite dei vecchi dizionari di italiano e latino, permette di scoprire, o a volte di riscoprire, cose interessanti, magari dimenticate. Stamattina mi sono svegliato con un chiodo fisso in testa: cercare l'etimologia della parola conservare, da cui deriva il termine conservatore. Il verbo italiano deriva dal latino conservare, che ha sì lo stesso significato del termine italiano "conservare", ma nella sfumatura di salvare, preservare e in alcuni casi rispettare. E non manca neppure il termine conservator, che si traduce appunto come salvatore.

Ebbene, la tendenza conservatrice italiana è nota a tutti. Senza scomodare la Storia, possiamo dire che decenni di politica e altrettanti di difesa di interessi privati di natura economica e sociale lo dimostrano. Oggi ci troviamo di fronte alla possibilità di dare una svolta - magari non di quelle completamente risolutive - ma comunque importante. D'altronde è con le azioni che si scrive la Storia. Quella con la lettera maiuscola di cui sopra, ovviamente. 

In politica, si sta scatenando un dibattito sulla modifica all'assetto istituzionale da dare al nostro Paese, che potrebbe passare da una repubblica parlamentare - in cui il potere di rappresentanza dei cittadini appartiene a deputati e senatori eletti - a qualcosa che assomigli al presidenzialismo, in cui Capo dello Stato abbia anche il ruolo di capo del governo e sia eletto direttamente dai cittadini. In questo modo, il criterio di rappresentanza si sposterebbe di più verso un solo personaggio, che avrebbe maggiori poteri per risolvere le crisi politiche che ultimamente stanno accompagnando la vita politica della nostra Repubblica.

Le forme di potere sarebbero diverse, ognuna con le proprie specificità. Ci sarebbero il presidenzialismo all'americana, il semipresidenzialismo alla francese, sistemi dotati entrambi di norme diverse per regolare i rapporti tra potere esecutivo, di rappresentanza e legislativo, ma con un comune denominatore: ridurre i passaggi istituzionali, che spesso o rallentano il corso di una legislatura o non permettono di avere una maggioranza stabile.

Molti - tra questi rispettabilissimi costituzionalisti - ritengono invece che la Costituzione vada  lasciata così com'è, insistendo sulla necessità che vada rispettata. E qui si ritorna al discorso di apertura sul rapporto tra conservazione, preservazione, rispetto, che lega con un filo robusto questi concetti. La nostra carta fondamentale però, nonostante la sua rigidezza (il che non significa che non possa essere modificata, bensì che occorre una procedura particolare per farlo) è composta da una parte non modificabile e una che invece lo è. La prima, che riguarda i principi fondamentali, deve rimanere invariata, perché esprime il senso stesso della forma democratica di potere; adattabile alle nuove esigenze è invece la seconda, che riguarda l'ordinamento dello stato. 

La crisi della politica, oltre che economica, ci ha mostrato come negli ultimi mesi la rappresentanza parlamentare sia stata spesso insufficiente ad esprimere una stabilità governativa, imponendo la necessità di ricorrere ai poteri straordinari del Presidente della Repubblica ai limiti - ma pur sempre ancora all'interno di essi - del loro utilizzo. Un cambiamento dell'assetto istituzionale in questa direzione permetterebbe di limitare anticipatamente queste possibilità, perché in entrambe le forme di potere citate il presidente avrebbe un forte potere esecutivo con cui dirigere il Paese.

C'è poi chi, come il ministro della Funzione pubblica Giampiero D'Alia, preferirebbe piuttosto introdurre il premierato, perché nel caso dell'introduzione dell'ordinamento presidenziale o semipresidenziale, «si tratta di cambiare, in profondità, l'assetto dei poteri. Cambia infatti l'equilibrio: tra il legislativo e l'esecutivo. E muta anche il potere giudiziario». Il presidente della Repubblica possiede il potere di presidenza del Csm, per cui si dovrebbe rinegoziare questo rapporto per non perdere uno dei principi cardine del regime democratico, ovvero la separazione dei poteri. Col premierato, inoltre, si creerebbero i presupposti per una velocizzazione delle decisioni politiche.

Francamente, dire cosa sia meglio non è facile e ne è possibile a priori. Certe scelte devono essere esperite, anche per vedere come reagisce l'elettorato. Ogni sistema del resto ha i propri vantaggi e i propri inconvenienti e soprattutto deve anche rispecchiare (di fatto lo fa) i valori culturali, la cultura politica e il carattere sociale di un popolo. Per questo motivo, è giusto che si sviluppi un dibattito costruttivo e che abbia anche i propri tempi. Ciò che bisogna evitare però è la palude, che da sempre caratterizza tutti i tentativi di rinnovamento nella politica italiana. Stallo e inconcludenza determinati, nella maggior parte dei casi, dalla tutela di interessi di parte. 

Scoraggiare persino il dibattito, dicendo che ci sono altri problemi più urgenti, significa fare slittare volutamente le possibilità di cambiamento e negare il legame che c'è tra stabilità, autorevolezza anche istituzionale, possibilità realistiche di crescita e rinnovamento culturale. Tutte cose di cui non si può più fare a meno. 

04 giugno 2013

MusicaMania: Il Rockabilly dei John Wayne Gacy. (L'Intervista)

di Giovanna Cafaro

Immaginate di viaggiare in un flusso spazio-temporale indefinito come accade nel visionario Back to the future e di ritrovarvi di colpo alla fine del varco che apre alla vista una brulicante hall illuminata da un occhio di bue, nella quale una figura si materializza in scena sulle note di un frenetico rock and roll alla Chuck Berry. Sì, l’atmosfera che si respira sembra proprio corrispondere a quella degli anni Cinquanta.
La sensazionale esperienza descritta è equiparabile a ciò che si prova ascoltando la musica dell’emergente gruppo rockabilly John Wayne Gacy, composto da quattro “svalvolati” – Antonio Adduca (chitarra solista e cultore jazz), Fabrizio Morrone (al basso per necessità ma flautista per vocazione), Marco Ferraro (batterista), Francesco Fazio alias Alvin (chitarra e voce) – i cui destini sono accomunati dall’amore per il genere.
The John Wayne Gacy è la travolgente band che trae linfa vitale dal vasto repertorio della musica anni Cinquanta, o per meglio dire dai musicisti dei favolosi Ottanta che attingono dai suoni di tre decadi prima: gente come Brian Setzer, ex chitarrista degli Stray Cats, tanto per intenderci. È dal repêchage dei ritmi e dei sound unito alle soluzioni strumentali innovative da loro ideate che nasce l’esplosivo genere.

Scopriamo qualcosa in più di loro, i retroscena e le confessioni della loro vita da musicisti parlandone con Alvin, leader del gruppo. 

Ciao Alvin e ben trovato nel nostro piccolo spazio dedicato all’universo musicale. Per cominciare, vorrei chiederti da dove nasce l’idea di formare un gruppo rockabilly.
Tutto ebbe origine nel lontano 2009 quando assistetti all’esibizione del rivoluzionario trio siciliano  Adels: fu amore a prima vista. La loro capacità di combinare insieme Rockabilly, Surf, Blues e Punk - definendo il Pure South-a-Billy Sound (da cui il titolo che diede vita al loro album nel 2006, NdA) - accese in me la voglia di sperimentare nuovi orizzonti pur rimanendo ancorati alla tradizione.

Il nome che avete deciso di adottare suona quasi come un ossimoro: il serial killer Gacy e l’attore dell’epopea classica del cinema hollywoodiano John Wayne, due personaggi antitetici, come nel caso del Dottor Jekyll e Mr. Hyde. L’uno è l’eroe che incarna “l’american dream” alla conquista del nuovo mondo all’interno del melting pot per salvaguardare la comunità dai cattivi; l’altro lo spietato assassino che tortura, sodomizza e uccide le sue vittime con estrema freddezza. Qual è lo slancio che connette le due figure con la nominazione del gruppo John Wayne Gacy? 
Innanzitutto, cercavamo un nome legato a eventi tragici e macabri, come accadeva per la maggior parte delle band del passato. Ti elenco alcuni esempi: il gruppo heavy metal britannico Black Sabbath trae origine dal Sabba, celebrazione orgiastica a carattere per lo più sacrilego che si consumava tra le streghe e il demonio; i Led Zeppelin scelsero lo Zeppelin tedesco LZ 129 Hindenburg come nome per il loro gruppo, poiché rievocava alle menti l’oggetto volante più grande mai costruito, poi distrutto nel 1937 a causa di un incendio; i Pennywise, gruppo hardcore punk statunitense dal perfido clown del celebre romanzo It di Stephen King; o ancora i Lyzzy Borden, che esasperavano le loro performance in forti shock rock (ossia l’attitudine di quei musicisti che durante i loro concerti ne estremizzano le esibizioni con temi a sfondo sessuali e violenti, NdA). La scelta di attingere dalla tradizione rappresentava un modo per rendere omaggio ai grandi artisti, facendo rivivere insieme il bene e il male come matrice della vita. E poi guardo agli innovatori della musica, per citarne solo alcuni: i Black Label Society, il mio mentore Zakk Wylde, i Metallica, gli Skid Row, i Deep Purple, gli AC/DC, i Pink Floyd, i Kiss e i Poison, per discostarmene e forgiarne un personalissimo stile.

Mi chiedevo se fosse diventata una costante tra i giovani quella di rivolgere e tendere l’orecchio al passato, soprattutto come accade negli ultimi tempi con la diffusione e talvolta l’abuso che si fa del termine vintage (dal francese “vendemmia”, indicando con essa la produzione di vino d’annata in riferimento ai manufatti fuori produzione da uno o più decenni, ricercati e collezionati in ragione della buona qualità del design e riconducibile a un determinato periodo storico) - onnipresente su tutti i fronti della vita - dalla moda al design, dalla musica alle automobili e via discorrendo. Nell’ambito musicale questo si ripercuote con l’avvento di band che emulano i loro padri, ricreando certe atmosfere suggestive. Il fenomeno sembra essere in costante aumento: mi sapresti dire perché la necessità di riproporre scenari come questi?
Guardare al passato, o come dici tu “tendere l’orecchio” verso di esso, permette di ammirare musicisti e produttori di testi davvero unici: e ci tengo a sottolineare che la musica, quella vera, esiste. Oggi non ci sono band capaci di compiere gesti eclatanti e di apportare genuine innovazioni nell’ambito del rock and roll e dell’hard rock, dove la produzione si presenta piuttosto scarsa. Per quel che riguarda, invece, il fenomeno prettamente legato al costume, devo dire che esso tende inevitabilmente a scontrarsi con la moda, con l’apparenza e con ciò che ne consegue. Ad esempio, il riferimento agli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, in realtà, è sempre esistito: vedi i Festival, i raduni, che uniscono determinati gruppi sociali per l’amore che si prova verso un particolare genere musicale. Queste realtà «parallele» riaffiorano nel momento in cui ci si accorge che esistono, perciò necessitano di essere vissute e raccontate al mondo.
 
Hai appena citato Festival, raduni, meeting... microcosmi fatti di differenti realtà, dove potersi confrontare e assaporare i retroscena del mondo rockabilly. Frequentate questi circuiti, magari come palcoscenico o trampolino di lancio che possano per farvi conoscere?
Tra i festival più importanti in Italia per lo scenario rockabilly vorrei ricordare il Summer Jamboree  di Senigallia che si svolgerà dal 3 all’11 agosto 2013, una sorta di happening culturale all’insegna di buona musica e non solo. Si tratta dell’evento più frizzante dell’anno in grado di coniugare la passione per il genere in un contesto ricreato ad hoc nel quale ti ritrovi investito e immerso in un’atmosfera davvero senza fiato, con l’insegnante di ballo, la make-up artist che ripropone il trucco anni Cinquanta, il tatuatore e tanti piccoli empori all’aperto con accessori e vestiti vintage: una grande famiglia in grado di offrirti tanto affetto. E poi è grazie alla passione che ci unisce per la musica a rendere tutto ciò così vitale. Il Maverick Rock ’n’ Roll Festival di Crotone, invece, è una realtà calabrese nata da poco: l’ho vissuta da spettatore attivo ed è stato come sentirsi al posto giusto nel momento giusto. Era tutto davvero perfetto!

Frequentare i luoghi “giusti” implica inevitabilmente far parte di una nicchia molto ristretta di cultori del genere. Quanto conta per voi seguire certi dettami e come si riflettono nell’abbigliamento, ma soprattutto nella vita?
Certo l’ambiente è di nicchia, ma non è fatto di soli cultori... per me è diventato sin da subito un vero e proprio stile di vita. Ti faccio un esempio: anche nella quotidianità mi ritrovo a indossare le creeper, le coloratissime camicie hawaiane, da bowling e a quadri che porto durante i concerti. Giochiamo molto con l’aspetto scenico, pensa al burlesque: l’arte e la vita si fondono insieme.

Il rockabilly è un genere ballabile, frenetico e soprattutto coinvolgente, mi descrivereste una vostra performance-tipo?
L’adrenalina sale, ogni concerto è una storia a sé! Solitamente si rompe il ghiaccio con un pezzo originale o un lento per mettere a proprio agio principalmente le coppiette; poi improvvisamente cambiamo registro, ed è qui che il pubblico si lancia in pista lasciandosi travolgere dall’incalzante ritmo.  Si crea una sintonia unica... pazzesco! Solo allora ti accorgi di amare con tutte le tue forze la musica, il rock and roll.

01 giugno 2013

Sabato in Poesia: "La ninna nanna de la guerra" (Trilussa)



Ninna nanna, nanna ninna,
er pupetto vô la zinna:
dormi, dormi, cocco bello,
sennò chiamo Farfarello,
Farfarello e Gujrmone
Gujermone e Ceccopeppe
che se regge co' le zeppe,
co' le zeppe d'un impero
mezzo giallo e mezzo nero.

Ninna nanna, pija sonno
ché se dormi nun vedrai
tante infamie e tanti guai
che succedeno ner monno
fra le spade e li fucilli
de li popoli civilli...

Ninna nanna, tu nun senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che commanna;
che se scanna e che s'ammazza
a vantaggio de la razza...
o a vantaggio d'una fede
per un Dio che nun se vede,
ma che serve da riparo
ar Sovrano macellaro.

Ché quer covo d'assassini
che c'insanguina la terra
sa benone che la guerra
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe' li ladri de le Borse.

Fa' la ninna, cocco bello,
finché dura 'sto macello:
fa' la ninna, ché domani
rivedremo li sovrani
che se scambieno la stima
boni amichi come prima.
So' cuggini e fra parenti
nun se fanno comprimenti:
torneranno più cordiali
li rapporti personali.

E riuniti fra de loro
senza l'ombra d'un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
pe' quer popolo cojone
risparmiato dar cannone!

Trilussa
(1914)