di Roberto Marino
Una vecchia abitudine ormai in disuso, quella di sfogliare le pagine quasi ingiallite dei vecchi dizionari di italiano e latino, permette di scoprire, o a volte di riscoprire, cose interessanti, magari dimenticate. Stamattina mi sono svegliato con un chiodo fisso in testa: cercare l'etimologia della parola conservare, da cui deriva il termine conservatore. Il verbo italiano deriva dal latino conservare, che ha sì lo stesso significato del termine italiano "conservare", ma nella sfumatura di salvare, preservare e in alcuni casi rispettare. E non manca neppure il termine conservator, che si traduce appunto come salvatore.
Ebbene, la tendenza conservatrice italiana è nota a tutti. Senza scomodare la Storia, possiamo dire che decenni di politica e altrettanti di difesa di interessi privati di natura economica e sociale lo dimostrano. Oggi ci troviamo di fronte alla possibilità di dare una svolta - magari non di quelle completamente risolutive - ma comunque importante. D'altronde è con le azioni che si scrive la Storia. Quella con la lettera maiuscola di cui sopra, ovviamente.
In politica, si sta scatenando un dibattito sulla modifica all'assetto istituzionale da dare al nostro Paese, che potrebbe passare da una repubblica parlamentare - in cui il potere di rappresentanza dei cittadini appartiene a deputati e senatori eletti - a qualcosa che assomigli al presidenzialismo, in cui Capo dello Stato abbia anche il ruolo di capo del governo e sia eletto direttamente dai cittadini. In questo modo, il criterio di rappresentanza si sposterebbe di più verso un solo personaggio, che avrebbe maggiori poteri per risolvere le crisi politiche che ultimamente stanno accompagnando la vita politica della nostra Repubblica.
Le forme di potere sarebbero diverse, ognuna con le proprie specificità. Ci sarebbero il presidenzialismo all'americana, il semipresidenzialismo alla francese, sistemi dotati entrambi di norme diverse per regolare i rapporti tra potere esecutivo, di rappresentanza e legislativo, ma con un comune denominatore: ridurre i passaggi istituzionali, che spesso o rallentano il corso di una legislatura o non permettono di avere una maggioranza stabile.
Molti - tra questi rispettabilissimi costituzionalisti - ritengono invece che la Costituzione vada lasciata così com'è, insistendo sulla necessità che vada rispettata. E qui si ritorna al discorso di apertura sul rapporto tra conservazione, preservazione, rispetto, che lega con un filo robusto questi concetti. La nostra carta fondamentale però, nonostante la sua rigidezza (il che non significa che non possa essere modificata, bensì che occorre una procedura particolare per farlo) è composta da una parte non modificabile e una che invece lo è. La prima, che riguarda i principi fondamentali, deve rimanere invariata, perché esprime il senso stesso della forma democratica di potere; adattabile alle nuove esigenze è invece la seconda, che riguarda l'ordinamento dello stato.
La crisi della politica, oltre che economica, ci ha mostrato come negli ultimi mesi la rappresentanza parlamentare sia stata spesso insufficiente ad esprimere una stabilità governativa, imponendo la necessità di ricorrere ai poteri straordinari del Presidente della Repubblica ai limiti - ma pur sempre ancora all'interno di essi - del loro utilizzo. Un cambiamento dell'assetto istituzionale in questa direzione permetterebbe di limitare anticipatamente queste possibilità, perché in entrambe le forme di potere citate il presidente avrebbe un forte potere esecutivo con cui dirigere il Paese.
C'è poi chi, come il ministro della Funzione pubblica Giampiero D'Alia, preferirebbe piuttosto introdurre il premierato, perché nel caso dell'introduzione dell'ordinamento presidenziale o semipresidenziale, «si tratta di cambiare, in profondità, l'assetto dei poteri. Cambia infatti l'equilibrio: tra il legislativo e l'esecutivo. E muta anche il potere giudiziario». Il presidente della Repubblica possiede il potere di presidenza del Csm, per cui si dovrebbe rinegoziare questo rapporto per non perdere uno dei principi cardine del regime democratico, ovvero la separazione dei poteri. Col premierato, inoltre, si creerebbero i presupposti per una velocizzazione delle decisioni politiche.
Francamente, dire cosa sia meglio non è facile e ne è possibile a priori. Certe scelte devono essere esperite, anche per vedere come reagisce l'elettorato. Ogni sistema del resto ha i propri vantaggi e i propri inconvenienti e soprattutto deve anche rispecchiare (di fatto lo fa) i valori culturali, la cultura politica e il carattere sociale di un popolo. Per questo motivo, è giusto che si sviluppi un dibattito costruttivo e che abbia anche i propri tempi. Ciò che bisogna evitare però è la palude, che da sempre caratterizza tutti i tentativi di rinnovamento nella politica italiana. Stallo e inconcludenza determinati, nella maggior parte dei casi, dalla tutela di interessi di parte.
Scoraggiare persino il dibattito, dicendo che ci sono altri problemi più urgenti, significa fare slittare volutamente le possibilità di cambiamento e negare il legame che c'è tra stabilità, autorevolezza anche istituzionale, possibilità realistiche di crescita e rinnovamento culturale. Tutte cose di cui non si può più fare a meno.
C'è poi chi, come il ministro della Funzione pubblica Giampiero D'Alia, preferirebbe piuttosto introdurre il premierato, perché nel caso dell'introduzione dell'ordinamento presidenziale o semipresidenziale, «si tratta di cambiare, in profondità, l'assetto dei poteri. Cambia infatti l'equilibrio: tra il legislativo e l'esecutivo. E muta anche il potere giudiziario». Il presidente della Repubblica possiede il potere di presidenza del Csm, per cui si dovrebbe rinegoziare questo rapporto per non perdere uno dei principi cardine del regime democratico, ovvero la separazione dei poteri. Col premierato, inoltre, si creerebbero i presupposti per una velocizzazione delle decisioni politiche.
Francamente, dire cosa sia meglio non è facile e ne è possibile a priori. Certe scelte devono essere esperite, anche per vedere come reagisce l'elettorato. Ogni sistema del resto ha i propri vantaggi e i propri inconvenienti e soprattutto deve anche rispecchiare (di fatto lo fa) i valori culturali, la cultura politica e il carattere sociale di un popolo. Per questo motivo, è giusto che si sviluppi un dibattito costruttivo e che abbia anche i propri tempi. Ciò che bisogna evitare però è la palude, che da sempre caratterizza tutti i tentativi di rinnovamento nella politica italiana. Stallo e inconcludenza determinati, nella maggior parte dei casi, dalla tutela di interessi di parte.
Scoraggiare persino il dibattito, dicendo che ci sono altri problemi più urgenti, significa fare slittare volutamente le possibilità di cambiamento e negare il legame che c'è tra stabilità, autorevolezza anche istituzionale, possibilità realistiche di crescita e rinnovamento culturale. Tutte cose di cui non si può più fare a meno.
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