31 agosto 2013

Sabato in Poesia: "Elegia I, 17" (Elegia 17 tratta dal primo libro di elegie di Sesto Properzio)



E meritatamente, poiché ho potuto abbandonare la mia ragazza,
ora parlo ai solitari alcioni;
né Cassiope come al solito sta per vedere la mia nave,
e tutti i miei voti cadono su questa spiaggia ingrata.
Che anzi, oh Cinzia, anche se sei assente i venti ti sono favorevoli:
guarda come il vento solleva le sue gravi minacce.
E non verrà nessuna sorte a placare la tempesta?
E questa poca sabbia coprirà il mio cadavere?
Tuttavia converti i tuoi fieri insulti in qualcosa di meglio:
ti sia abbastanza la notte di pena che ho passato e l’iniquo mare.
Oppure tu potrai seppellire la mia salma con occhi asciutti,
e sempre con gli occhi asciutti tenere le mie ossa che sono diventate niente strette al tuo seno?
Ah, perisca chiunque per primo preparò le navi e le vele
e fece il suo viaggio contro la volontà del mare!
Non sarebbe stato più leggero vincere i costumi della donna
(sebbene così dura, tuttavia era una ragazza di rara bellezza)
piuttosto che vedere queste spiagge circondate da selve sconosciute
e cercare i desiderati Tindaridi?
Lì a Roma, se per caso i fati avessero seppellito il mio dolore,
e un’ultima pietra stesse in piedi su un amore finalmente deposto,
lei avrebbe donato al mio funerale dei suoi amati capelli,
e avrebbe amorevolmente deposto le mie ossa su un letto di rose;
lei gettando l’ultimo pugno di polvere avrebbe gridato il mio nome
chiedendo che la terra non mi fosse di nessun peso.
Ma voi Nereidi che siete creature marine nate dalla bella Doride,
sciogliete con il vostro felice coro le candide vele;
semmai Amore scivolando tra voi ha toccato le vostre onde,
risparmiate questo compagno di sofferenza offrendogli un approdo sereno.

Sesto Properzio



Versione in latino

Et merito, quotiam potui fugisse puellam,
nunc  ego desertas alloquor alcyonas;
nec mihi Cassiope soluit conuersa carinam,
omniaque ingrato litore uota cadunt.
Quin etiam absenti prosunt tibi, Cynthia, uenti:     
aspice quam saeuas increpat aura minas.
Nullane placatae ueniet fortuna procellae?
haecine parua meum funus harena teget?
tu tamen in melius saeuas conuerte querelas:
sat tibi sit poenae nox et iniqua uada.                        
An poteris siccis mea fata reuolere ocellis,
ossaque nulla tuo nostra tenere sinu?
a pereat quicumque rate set uela parauit
primus et invito gurgite fecit iter!
nonne fuit levius dominae peruincere mores             
(quamuis dura, tamen rara puella fuit)
quam sic ignotis circumdata litora soluis
cernere et optatos quaerere Tyndaridas?
hillic si qua meum sepelissent fata dolorem,
ultimus et posito staret amore lapis,                             
illa meo caros donasset funere crines,
molliter et tenera poneret ossa rosa;
illa meum extremo clamasset puluere nomen
ut mihi non ullo pondere terra foret.
At uos, aequoreae formosa Doride natae,                    
candida felici soluite uela choro;
si quando uestras labens Amor attigit undas,
mansuetis socio parcite litoribus. 

0 commenti :

Posta un commento