Sabato in Poesia: "Vendemmia" di Marino Moretti

Vendemmia di Marino Moretti è una poesia tratta dalla raccolta Sentimento: pensieri, poesie...

Roma capitale d'Italia

Chissà quanti studenti ed ex studenti liceali si sono trovati a tradurre la famosissima frase del De Oratore...

L'origine della crisi finanziaria statunitense

La crisi che ha interessato i mercati finanziari dei paesi maggiormente sviluppati, e che gli esperti...

Così cinque anni fa cominciava la crisi...

"Era una notte buia e tempestosa...", questo è l'incipit dell'interminabile romanzo che Snoopy...

Sabato in Poesia: Estratto di "Beppo, racconto veneziano" (George Gordon Lord Byron)

Beppo è un poemetto satirico in ottave ariostesche (secondo lo schema metrico ABABABCC), attraverso il quale Byron affronta...

28 dicembre 2013

Sabato in Poesia: "Canzone dei dodici mesi" di Francesco Guccini

Canzone dei dodici mesi è tratta dall'album Radici, di Francesco Guccini, registrato in studio nella primavera del 1972 e pubblicato nello stesso anno. Il disco si occupa del tema delle origini, della riscoperta dell'elemento ancestrale, del passato della vita dell'uomo (temi che ricordano molto l'universo letterario di Pavese), a metà strada tra la dimensione sociale, comunitaria e quella del ricordo più strettamente autobiografico. Il testo qui proposto è un inno laico, un canto celebrativo, in stile classicheggiante e quasi pagano, nei confronti dell'avvicendarsi dei mesi e delle stagioni dell'anno. L'autore si serve della figura retorica della prosopopea per rappresentare, nel modo più vicino e comprensibile all'uomo, l'incedere del tempo e rendere possibile la sua identificazione con la realtà panica. Lo schema circolare della cultura antica, bucolica e pre-razionalistica, diventa dunque strumento efficace per descrivere il mondo della natura, fatto di ciclici ritorni. Accanto alla dimensione culturale passata, non manca l'accostamento di uno sguardo contemporaneo alla vita dell'uomo moderno, fatta di abitudinarietà, velocità, ma anche di incertezza e cambiamento.     


Viene Gennaio silenzioso e lieve,
un fiume addormentato 
fra le cui rive giace come neve
il mio corpo malato, 
il mio corpo malato. 
Sono distese lungo la pianura
bianche file di campi, 
son come amanti dopo l'avventura
neri alberi stanchi,
neri alberi stanchi.
Viene Febbraio, e il mondo è a capo chino,
ma nei convitti e in piazza 
lascia i dolori e vesti da Arlecchino, 
il carnevale impazza, 
il carnevale impazza.
L'inverno è lungo ancora,
ma nel cuore appare la speranza 
nei primi giorni di malato sole 
la primavera danza, 
la primavera danza. 
Cantando Marzo porta le sue piogge,
la nebbia squarcia il velo, 
porta la neve sciolta nelle rogge 
il riso del disgelo,
il riso del disgelo. 
Riempi il bicchiere e con l'inverno
butta la penitenza vana, 
l'ala del tempo batte troppo in fretta, 
la guardi, è già lontana,
la guardi, è già lontana. 

O giorni, o mesi, che andate sempre via;
sempre simile a voi è questa vita mia; 
diverso tutti gli anni, ma tutti gli anni uguale, 
la mano di tarocchi che non sai mai giocare, 
che non sai mai giocare. 

Con giorni lunghi al sonno dedicati 
il dolce Aprile viene, 
quali segreti scoprì in te il poeta
che ti chiamò crudele, 
che ti chiamò crudele?
Ma nei tuoi giorni è bello addormentarsi
dopo fatto l'amore, 
come la terra dorme nella notte
dopo un giorno di sole, 
dopo un giorno di sole. 
Ben venga Maggio e il gonfalone amico,
ben venga primavera, 
il nuovo amore getti via l'antico
nell'ombra della sera, 
nell'ombra della sera; 
ben venga Maggio, ben venga la rosa 
che è dei poeti il fiore, 
mentre la canto con la mia chitarra 
brindo a Cenne e a Folgore, 
brindo a Cenne e a Folgore. 
Giugno, che sei maturità dell'anno,
di te ringrazio Dio: 
in un tuo giorno, sotto al sole caldo,
ci sono nato io, 
ci sono nato io; 
e con le messi che hai fra le tue mani
ci porti il tuo tesoro, 
con le tue spighe doni all'uomo il pane,
alle femmine l'oro, 
alle femmine l'oro. 

O giorni, o mesi, che andate sempre via;
sempre simile a voi è questa vita mia; 
diverso tutti gli anni ma tutti gli anni uguale, 
la mano di tarocchi che non sai mai giocare,
che non sai mai giocare. 

Con giorni lunghi di colori chiari 
ecco Luglio il leone, 
riposa e bevi e il mondo attorno appare 
come in una visione, 
come in una visione. 
Non si lavora Agosto, nelle stanche tue lunghe oziose ore, 
mai come adesso è bello inebriarsi
di vino e di calore,
di vino e di calore. 
Settembre è il mese del ripensamento
sugli anni e sull' età, 
dopo l'estate porta il dono usato
della perplessità,
della perplessità. 
Ti siedi e pensi e ricominci il gioco
della tua identità, 
come scintille brucian nel tuo fuoco
le possibilità,
le possibilità. 
Non so se tutti hanno capito Ottobre
la tua grande bellezza, 
nei tini grassi come pance piene
prepari mosto e ebbrezza,
prepari mosto e ebbrezza. 
Lungo i miei monti, come uccelli tristi
fuggono nubi pazze, lungo i miei monti 
colorati in rame
fumano nubi basse,
fumano nubi basse. 

O giorni, o mesi, che andate sempre via;
sempre simile a voi è questa vita mia; 
diverso tutti gli anni ma tutti gli anni uguale 
la mano di tarocchi che non sai mai giocare,
che non sai mai giocare. 

Cala Novembre, e le inquietanti nebbie
gravi coprono gli orti, 
lungo i giardini consacrati al pianto
si festeggiano i morti,
si festeggiano i morti. 
Cade la pioggia, ed il tuo viso bagna
di gocce di rugiada, 
te pure, un giorno, cambierà la sorte
in fango della strada,
in fango della strada.
E mi addormento come in un letargo Dicembre,
alle tue porte lungo i tuoi giorni
con la mente spargo
tristi semi di morte,
tristi semi di morte.
Uomini e cose lasciano per terra
esili ombre pigre, ma nei tuoi giorni 
dai profeti detti nasce Cristo la tigre,
nasce Cristo la tigre.

O giorni, o mesi, che andate sempre via;
sempre simile a voi è questa vita mia;
diverso tutti gli anni ma tutti gli anni uguale
la mano di tarocchi che non sai mai giocare,
che non sai mai giocare.

Francesco Guccini

Francesco Guccini (1940 - vivente), cantautore e scrittore di libri gialli, nasce a Modena il 14 gennaio. A causa della guerra trascorre l'infanzia e l'adolescenza a Pavana, piccola località di confine dell'Appennino Pistoiese a cui resterà sempre legato. Nel 1960 si trasferisce a Bologna, dove frequenta la facoltà di Magistero Lettere e, per due anni fa il cronista alla Gazzetta di Modena. Insegna per vent'anni lingua italiana al Dickinson College, scuola off-campus con sede a Bologna, dell'Università della Pennsylvania. Nel 1967, si ha il suo debutto come cantautore con la pubblicazione del suo primo disco, Folk Beat n.1, che apre la strada ad una fortunata e meritata carriera, ormai quarantennale, di cantautore. Nel 1989, Guccini fa il suo esordio nel mondo della letteratura con la pubblicazione del suo primo libro, Croniche epafaniche. Riceve numerosi premi e riconoscimenti, tra cui nel 2001 la laurea ad honorem in Scienze della Formazione dalle Università di Bologna - Modena e Reggio Emilia.
Le sue principali opere sono: Folk Beat n.1 (disco 1967), Due anni dopo (disco 1970), L'isola non trovata (disco 1970), Radici (disco 1972), Opera buffa (disco 1973), Stanze di vita quotidiana (disco 1974), Via Paolo Fabbri 43 (disco 1976), Amerigo (disco 1978), Guccini (disco 1983), Signora Bovary (disco 1987), Croniche epafaniche (libro 1989), Quello che non... (disco 1990), Parnassius Guccinii (disco 1993), Vacca d'un cane (libro 1993), Storie d'inverno (libro 1994), Novecento e Novecento: il tempo del lavoro, il tempo del riposo: storie e genti dell'Appennino modenese (libro 1995), D'amore di morte e di altre sciocchezze (disco 1996),  La legge del bar e altre comiche (libro 1995), Macaroni. Romanzo di santi e delinquenti (libro 1997), Un disco dei Platters. Romanzo dei di un maresciallo e di una regina (libro 1998), Dizionario del dialetto di Pavana. Una comunità tra Pistoiese e Bolognese (libro 1998), Un altro giorno è andato (libro 1999), Stagioni (disco 2000), Questo sangue che impasta la terra (libro 2001), Storia di altre storie (libro 2001), Lo spirito e altri briganti (libro 2002), Il vecchio e il bambino (libro 2002), Cittanova Blues (libro 2003), Ritratti (disco 2004), L'uomo che reggeva il cielo (libro 2005), Icaro (libro 2008), L'ultima Thule (disco 2012).

22 dicembre 2013

Cristina Aubry: il personaggio, l'attrice, la donna

di Giovanna Cafaro e Roberto Marino

Un artista è davvero un personaggio unico. Una sorta di catalizzatore magico, capace di coagulare diverse energie creative ed esplorare percorsi inediti attraverso un codice espressivo del tutto originale e personale, che tocca le corde sensibili ed emozionali dello spettatore. Cristina Aubry ne è un esempio tangibile. Affermata attrice di teatro, televisione, cinema, doppiatrice, insegnante di dizione, non è soltanto una bravissima professionista, ma una persona di un'affabilità rara, di grande gentilezza, sensibilità, una persona comune nel senso più nobile del termine. Quest'anno l’artista ha dato il via al progetto Dire leggere interpretare, un laboratorio di dizione e lettura espressiva in giro per l'Italia, dove l'abbiamo incontrata.

Una domanda un po’ di rito sull’accoglienza che ha trovato in Calabria.
Meravigliosa. Cominciamo con le bottiglie di Cirò… Meglio di così non poteva andare (ride). A parte tutto, una grande disponibilità, una grande gentilezza. Sono stata molto bene, le persone sono state molto carine. Non posso proprio lamentarmi.

Era mai stata in Calabria?
Sono stata varie volte, anche per lavoro, e ci torno volentieri. Sono stata anche al Rendano di Cosenza e devo dire che è uno dei teatri più belli d’Italia. 

A proposito del corso di dizione e lettura espressiva Dire leggere interpretare, cos’è un corso di dizione, a chi si rivolge?
Un corso di dizione, in genere, è considerato una gran palla (ride), perché è pieno di regole e regolette varie. La dizione, come sappiamo, è l’insieme di suoni che codificano il linguaggio. Una lingua vale per tutto uno stato, come l’Italia, che ha varie radici, vari ceppi, vari dialetti. Queste sono le sue ricchezze al punto che esistono espressioni dialettali non traducibili in italiano per la loro potenza, per la loro forza evocativa. Esiste poi però una lingua italiana che è molto bella e che, per chi usa la comunicazione – non solo gli attori, i doppiatori, ma anche per chi ha rapporti con il pubblico, insegnanti, avvocati – può servire, perché le regole esprimono chiarezza e sottolineano il bello delle parole. Facevo l’esempio della parola soave che linguisticamente evoca già il suo contenuto o della parola furente che fa altrettanto. Cerchiamo di non staccare mai la parola dai suoi contenuti. In questo senso la dizione diventa interessante. Se è soltanto una regola pedissequa, non ci interessa; ma se la dizione fa parte del senso e del corpo della parola, per me diventa interessante. La cosa che io mi sono un po’ divertita a fare è cercare di alleggerire il tutto e perciò di costruirci filastrocche, giochi, scioglilingua, in modo da imparare tutto questo quasi come delle canzoncine per bambini, delle cose che penetrano in quel significato e anche nella piacevolezza di quello che si dice. In questo modo si rendono piacevoli quelle regole, che enunciate a memoria sono un po’ noiose e magari neanche ti rimangono impresse, mentre invece se trasformate in filastrocca… Ad esempio: Che rancore quel signore! Così ci si ricorda che le parole che terminano in -ore devono essere pronunciate con l’accento chiuso. 

Parlando di teatro, il suo interesse per un teatro per così dire non tradizionale è alla base della sua esperienza. Parliamo di Grotowski, del suo teatro povero, spoglio di ogni orpello superfluo e improntato alla sola relazione teatrale dove l’attore non è più l’ipokrites aristotelico che finge, ma è se stesso, una sorta di attore-santo; Peter Brook con l’idea di una drammaturgia d’azione. Poi c’è stato l’incontro, il sodalizio con Emanuela Cocco e la nascita della compagnia teatrale Franz Biberkoff. Qual è l’obiettivo principale di questa nuova ricerca drammaturgica oggi? 
Diciamo intanto che io vengo da un’esperienza di formazione all’Accademia di Arte Drammatica Silvio D’Amico, perciò quanto di più classico esista. Ho una certa età (sorride), per cui mi sono formata anche guardando Peter Brook, Grotowski, che ho avuto la fortuna di vedere a Roma negli anni ’80 e che mi hanno aperto un mondo. Sono sempre andata a capofitto verso cose di cui mi innamoravo e che seguivo. Per un periodo ho deciso di fare teatro tradizionale, dopo di che sono andata su tutt’altro, cioè teatro di strada, trampoli, mangiatori di fuoco, clown, cose così. Dopo aver fatto un po’ di esperienze, tournée al servizio di grandi attori come Nando Gazzolo, mostri sacri degli anni che furono (ride), ho deciso, anche attraverso gli incontri, di dedicarmi alla nuova drammaturgia sia straniera che italiana. Ho avuto la fortuna di lavorare in Rai in una trasmissione, Teatro giornale di Rai3, in diretta ogni giorno per tre anni, fondata da Pierattini e Cavosi, e da allora la mia ricerca è stata, come scrivono oggi, nel mondo, per promuovere anche testi stranieri di autori che non si conoscono. L’incontro con Emanuela Cocco è nato proprio grazie al suo testo, Nel Giardino, che lei mi ha spedito; non mi conosceva. L’ho trovato un dramma moderno – lei all’epoca era una ragazzina, ma aveva già vinto un premio – che mi ha decisamente conquistato. Ho recitato questo testo a Roma, dopo di che con Manuela ci siamo proprio artisticamente innamorate. Abbiamo cominciato a collaborare, lei ha molti racconti. Io non sono proprio una lettrice, però lei mi ha iniziata ai racconti. Con Emanuela vorremmo cercare di lavorare sul teatro, semplicemente sulla vita riportata sulla scena. Lei è una persona veramente di grande cultura, che mi insegna… C’è veramente un bello scambio. 

E per quanto riguarda invece l’esperienza come regista? 
Come regista ho fatto delle cose. Non mi interessa più di tanto, anche se poi nei laboratori si fa regia, perché in realtà metti in scena delle cose. Forse la regia più bella è stata quella di Matematica sentimentale, un testo di Palladino che ho diretto io, sempre con la formula del racconto teatrale e cioè dell’attore che si sdoppia e diventa tutti i personaggi del racconto. Uno stesso racconto dove c’è un dialogo, ma il dialogo non lo devono fare sempre i due personaggi. Dialogo e narratore passa da persona a persona. E’ una convenzione. Quando tu capisci la fluidità, lei fa l’amica e poi c’è il narratore, poi di nuovo l’amica diventi tu e diventa lei poi, che so, il narratore… Se tutto viene approfondito e interpretato, si può fare teatro, per finire a Grotowski, con niente, perché basta un segno, basta un costume, un’intonazione della voce che tu entri nella magia. Un po’ come fanno i bambini quando giocano a raccontare le favole. E poi l’ultima regia l’ho fatta con un adattamento mio e di una collega, Anna Maria Loliva, su La Bella e la Bestia. 

Durante la sua attività artistica ha interpretato molti ruoli e personaggi. Cosa le hanno insegnato? 
Tutto (ride). Anche perché spesso, specie nelle parti più nere, più in ombra, lasci parlare loro. Però, parlando loro – è come una terapia secondo me – ci metti delle parti di te. C’è questa grande liberazione nel teatro, che ti permette di essere tutto, come è, solo che nella vita noi siamo spesso costretti a giocare i nostri ruoli e spesso non abbiamo la libertà di poter anche renderci conto delle nostre zone meno nobili e più d’ombra. La bellezza di un testo teatrale è che il personaggio, per quanto assassino, per quanto cattivo, per quanto traditore, è umano. Per citare il grande Umano, troppo umano, diventa poi comunque sempre la valenza che ti tocca. Tutto ciò che non è umano in fondo chi se ne frega. Ciò che è umano però ti tocca. 

La stessa catarsi che c’è nel teatro si ritrova nel cinema... 
Sì, beh… L’esperienza teatrale è l’esperienza più viva che esista, perché si svolge nel qui e ora e c’è un pubblico. Lo scambio è reale. Ormai c’è una virtualità che ha superato la realtà, ma quell’esperienza lì non c’è. Io amo il cinema, intendiamoci, però non è la stessa cosa. Tocca delle corde diverse, c’è uno schermo di mezzo. Il teatro è corpo. 

Proviamo un attimo a sfiorare leggermente la tematica della donna in relazione a due suoi spettacoli, Veronica e Lulù, Ruud e le altre. Lei cerca di interpretare ruoli femminili un po’ a metà strada tra la leggerezza, l’ironia e anche la questione sociale, che è un tema decisamente attuale. Secondo lei si può parlare di una vera emergenza donna in Italia e, se sì, è un fenomeno localizzato in alcune aree o è un fenomeno più vasto? 
E’ una domanda che richiede un tempo di riflessione. Io non lo so, credo che l’urgenza sia individuale. Io non credo tanto nelle urgenze comuni. E’ chiaro che adesso di donne si parla. C’è questa nuova parola, femminicidio, che adesso sta sulla bocca di tutti. Evidentemente questo tema c’è sempre stato, soltanto più silente. Tocca e sta venendo fuori, per cui ben venga. Tutto ciò che viene a galla, specie se viene dall’inconscio ricco di violenza, è giusto che sia. Se ne parla, vuol dire che si tira fuori qualcosa. Si denuncia, se ne prende coscienza che questa cosa ce l’hai davanti agli occhi. Personalmente, io non credo nel teatro a tesi. Io sento che preferisco raccontare una storia non volendo dare una lezione. Tanto è vero che mi è piaciuto tanto Veronica ed ho accettato di interpretarlo, perché in realtà, è vero che la Veronica di cui si parla è quella Veronica lì, ma è una donna che è la moglie di un uomo di potere e che ha sempre le problematiche umane della donna dell’uomo di potere. Non ci interessa parlare di Veronica Lario, se ne è già parlato pure troppo. E’ chiaro che tu la chiami così, perché quello è quasi un archetipo. Quello che ci interessa però è sentire questo personaggio, questa donna in quei panni là e perciò con tutte le sue contraddizioni, con questa sua rabbia, questo suo furore per aver dovuto soffocare, aver scelto. Nella Veronica di Franceschelli c’è l’assoluta coscienza e quasi rivendicazione di quello che ha fatto, però nello stesso tempo c’è la solitudine. Infatti è una Veronica lunare, avvolta in questa specie di abito da sposa, che però è come un bozzolo e lei dentro ha questa compressione, questo sarcasmo, questa rabbia, che non può che esprimere contro se stessa. Ecco, questo tema è squisitamente umano. Non è di Veronica Lario, che magari non è neanche così (ride). Non lo sappiamo, ma non ci interessa. Penso poi che ognuno abbia le proprie tematiche e qualsiasi tematica… La Bella e la Bestia per dirne una, è la tematica del diverso, dell’ombra, della propria bestia che si redime solo se la ami, ma non occorre dirlo, occorre scegliere una storia e raccontarla. Il racconto di Colette, che abbiamo letto, è un racconto all’apparenza molto leggero, in realtà dentro c’è tutta una storia di cambiamento, una evoluzione dei personaggi, ed è bello questo lavoro, credo, per poter avvicinare qualsiasi cosa con degli occhi che cercano e si fanno delle domande. In questo caso poi avere anche qualche risposta. 

Sempre in Veronica, nella parte finale, la protagonista chiede alla voce corale se la gente parli di lei, se è rimasto qualcosa di lei. Questa parte colpisce molto perché viene fuori tutto il desiderio di protagonismo del personaggio, in controluce rispetto alla vita che la donna ha vissuto come individuo oppresso, frustrato. 
Esatto, è il suo dramma. Il dramma di Veronica si riassume in questo: lei è solo luce riflessa. E quante donne sono luce riflessa? E’ molto bella la risposta dell’altra donna: «No! Di te nessuno dice nulla». E’ raccapricciante. 

Consiglierebbe ad un giovane, una giovane d’oggi, aspiranti attori, di percorrere questa strada? 
Sì! Anche se ci sono pochi soldi, se stanno togliendo tutte le sovvenzioni possibili, se lo stato non se ne occupa, se faranno una vita di stenti, è il lavoro più bello del mondo, per cui io non posso che dire… sì!. E’ un lavoro che richiede coraggio, però sfido chiunque a divertirsi col proprio lavoro, non è facile. Certo, bisognerebbe aiutarlo un po’ questo lavoro, questo sì. Bisognerebbe trovare un po’ di luoghi, parlo di Stato. Anche nello stesso spettacolo… Io ora non voglio dire, però uno che fa la casa del Grande Fratello che poi debba andare ai Parioli a fare i “tutti esauriti” ed essere pagato fior di miliardi non è tanto etico. Perché poi i ragazzini che voglio fare da grande? Quello. E’ un po’ il risultato triste di quello che siamo diventati. Così è. E’ lo specchio di quello che siamo diventati. Questo lavoro è un percorso di conoscenza, secondo me, se fatto in un certo modo. E’ un bel percorso di conoscenza.

21 dicembre 2013

Sabato in Poesia: "Natale" di Giuseppe Ungaretti

Natale è una poesia che risale al 26 dicembre 1916, in piena guerra mondiale, scritta a Napoli durante un periodo di licenza trascorso dal poeta presso alcuni amici. Si nota immediatamente il senso di ritrosia della voce narrante ad immergersi nel mondo di sempre, quello quotidiano della città, per l'orrore generato dalla guerra che toglie il desiderio di ritorno ad una vita normale. La città con il suo andirivieni di gente, le sue strade affollate e labirintiche è molto lontana dallo stato d'animo di chi ha vissuto in prima persona le atrocità della guerra e sente più che altro la necessità di rintanarsi in se stesso, nei propri pensieri a riflettere, quasi a recuperare la dimensione umana, fatta di pensieri, di emozioni, di memoria, di tranquillità solitaria, che l'esperienza della guerra necessariamente cancella. La guerra infatti è azione, dinamicità, attenzione pragmatica continua, intervento immediato, e non lascia il tempo neppure per elaborare ciò che di traumatico è accaduto. Il caldo del focolare domestico - definito buono in contrapposizione al freddo della trincea - da cui si sviluppano le capriole di fumo, immagine molto plastica che chiude la lirica, è invece l'occasione per gustare un momento di disincantato raccoglimento.   


Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade


Ho tanta
stanchezza
sulle spalle


Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata


Qui
non si sente
altro
che il caldo buono


Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare


Giuseppe Ungaretti

Giuseppe Ungaretti (1888-1970) è stato un poeta e scrittore italiano. Nacque ad Alessandria d'Egitto da genitori italiani originari di Lucca. Alla morte del padre, operaio impegnato nei lavori di scavo del Canale di Suez, a causa di un incidente sul lavoro, rimase a vivere solo con la madre, che gli consentì comunque di studiare. Si appassionò ben presto alla poesia e alla letteratura, grazie alle amicizie e alla scoperta di riviste letterarie. Nel '12 si trasferì a Parigi, dove frequentò l'università e conobbe alcuni tra i più grandi letterati e artisti dell'epoca. Allo scoppio della Grande Guerra si arruolò come volontario e combatté sul Carso. Da questa esperienza nacque la sua prima raccolta poetica dal titolo Il porto sepolto. Al termine della guerra, si trasferì a Parigi, dove svolse il ruolo di corrispondente per il giornale Il Popolo d'Italia e successivamente quello di impiegato presso l'ufficio stampa dell'ambasciata italiana. Nel '20 sposò Jeanne Dupoix, da cui poi ebbe due figli e l'ano dopo si trasferì a Marino, vicino Roma. Quattro anni più tardi aderì ufficialmente al fascismo, firmando il Manifesto degli intellettuali fascisti, svolse un'intensa attività giornalistica e letteraria su diversi giornali e riviste francesi e italiane e organizzò diverse conferenze in giro per il mondo. A partire dal 1931 ottenne l'incarico di inviato speciale per il giornale La gazzetta del Popolo e riprese i suoi viaggi di lavoro, le cui esperienze saranno raccontate successivamente nelle opere Il povero nella città e Il deserto dopo. Nel 1936, gli venne offerta la cattedra di letteratura italiana presso l'Università di San Paolo del Brasile, che egli accettò, trasferendosi con tutta la famiglia fino al '42. Proprio in Brasile morirà il piccolo Antonietto, suo figlio di soli nove anni, lasciando il poeta in una condizione di prostrazione interiore molto evidente. Nel '42, tornato in Italia, fu nominato Accademico d'Italia e professore di letteratura moderna e contemporanea all'Università di Roma. Nel '58 ottenne la cittadinanza onoraria di Cervia, nel '60 il Premio Montefeltro e sei anni dopo il Premio Etna-Taormina. Dal 1968 in poi divenne famoso al grande pubblico per le sue letture televisive dei versi dell'Odissea. Nel 1970 ottenne l'ultimo riconoscimento dall'università dell'Oklahoma, ma il viaggio delibitò la sua salute ormai cagionevole a causa dell'età avanzata. Morì nella notte tra 1 e il 2 giugno; ai funerali, che si tennero tre giorni dopo non partecipò nessun rappresentante del Governo italiano. E' sepolto nel cimitero del Verano insieme alla moglie. 
Tra le opere di Ungaretti troviamo: Natale (poesia 1916), Il porto sepolto (poesia 1917), Allegria di naufragi (poesia 1919), L'Allegria (poesia 1931), Sentimento del tempo (poesia 1933), Traduzioni (193), 22 sonetti di Shakespeare (traduzione 1944), 40 Sonetti di Shakespeare (traduzione 1946), La guerra (poesia 1947), Il dolore (poesia 1947), Demiers Jours. 1919 (poesia 1947), Da Góngora e da Mallarmé (traduzione 1948), Il povero nella città (prosa 1949), Gridasti: Soffoco... (poesia 1950), La Terra Promessa (poesia 1950), Fedra di Jean Racine (traduzione 1950), Un grido e Paesaggi (poesia 1952), Les Cinq livres, texte francais etabli par l'auteur et Jean Lescure. Quelques reflexions de l'auteur (1952), Poesie disperse (1915-1927) (poesia 1959), Il Taccuino del Vecchio (poesia 1960), Il Deserto e dopo (prosa 1961), Visioni di William Blake (traduzione 1965), Dialogo (poesia 1968), Vita d'un uomo. Tutte le poesie (poesie 1969), Saggi e interventi (saggi 1974), Lettere a Soffici, 1917/1930 (epistolario 1983), Invenzione della poesia moderna, Lezioni brasiliane di letteratura (1937-1942) (saggi 1984), Lettere a Enrico Pea (epistolario 1984), Carteggio 1931/1962 (epistolario 1984), Lettere a Giovanni Papini 1915-1948 (epistolario 1988).
      

14 dicembre 2013

Sabato in Poesia: "«Poeta esclusivo d'amore»" di Sandro Penna

Questo breve componimento di Penna è un inno pacato, calmo, ma pur sempre innalzato, all'amore. Il poeta parte dalla giustificazione rispetto ad una critica ricorrente nei confronti della sua poesia, quella di essere interamente dedicata all'amore. Egli reagisce non negando la definizione - anzi la riporta - bensì valorizzandola attraverso l'interpretazione dell'amore come forza cosmica e totalizzante, che investe l'intera realtà. Il mondo della natura e quello degli uomini, ciascuno con i propri suoni e rumori è totalmente pervaso dall'amore, che non può avere dunque un significato limitato al semplice rapporto tra uomini. Da notare l'importanza data all'ambito sensoriale di tipo sonoro, che diventa il mezzo attraverso cui l'amore si manifesta alla sensibilità del poeta. 


«Poeta esclusivo d'amore»
m'hanno chiamato. E forse era vero.
Ma il vento qui sull'erba ed i rumori
della città lontana
non sono anch'essi amore?
Sotto nuvole calde
non sono ancora i suoni
di un amore che arde
e più non si allontana?

Sandro Penna

Sandro Penna (1906-1977) è stato un poeta italiano. Nato a Perugia, ebbe un'infanzia movimentata e difficile, segnata da problemi di salute e dalla separazione dei genitori. Rimasto col padre, si diplomò nel '25 in ragioneria, pur essendo molto appassionato di letteratura, come testimoniano la lettura di Leopardi, D'Annunzio, HölderlinWildeRimbaudBaudelaire, Clever. Dal 1928, cominciò a dedicarsi attivamente alla poesia e sperimentò i primi amori di tipo omosessuale. Trasferitosi a Roma, fece diversi lavori saltuari, ma nel '29 ebbe la fortuna di entrare in un circolo letterario grazie alla conoscenza con Umberto Saba. Nel '37 fu a Milano, dove restò due anni e lavorò presso l'editore Bompiani come correttore di bozze, frequentando Sinisgalli, Gadda e altri letterati. A due anni più tardi risale il suo esordio letterario grazie all'interessamento di Giansiro Ferrata e Sergio Solmi, il cui successo gli valse la collaborazione con diverse riviste letterarie. Nel 1943 morì il padre, nel 1957 ottenne il Premio Viareggio, pur in mezzo a qualche polemica, e nel '70 l'ulteriore riconoscimento con l'assegnazione del Premio Fiuggi. Gli ultimi anni della sua vita furono segnati da problemi di salute, una vecchiaia precoce e disturbi del sonno. Pochi giorni prima della morte gli venne assegnato il Premio Bagutta, che non riuscì a ritirare a causa del peggioramento delle sue già precarie condizioni.
Tra le opere di Penna abbiamo: Poesie (1939), Presenza e profezia (traduzione 1947), Appunti (poesie 1950), Arrivo al mare (racconto 1950), Una strana gioia di vivere (poesie 1956), Poesie (1957), Croce e delizia (poesie 1958), Tutte le poesie (1970), Un po' di febbre (appunti di viaggio e prose 1973), L'ombra e la luce. Sette poesie (poesie 1975), Stranezze (poesie 1976), Carmen e altri racconti (traduzione 1977), Il rombo immenso (poesie 1978), Confuso sogno (a cura di Elio Pecora 1980), Peccati di gola. Poesie al fermo posta (1989), Appunti di vita (1990), Lettere e minute, 1932-1938 con Eugenio Montale (a cura di Roberto Deidier 1995), Una felicità possibile. Appunti di diario (a cura di Elio Pecora 2000), Cose comuni e straordinarie (a cura di Elio Pecora 2002), Autobiografia al magnetofono, (a cura di Elio Pecora 2006).

07 dicembre 2013

Sabato in Poesia: "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" di Cesare Pavese

Il componimento, dedicato all'attrice Constance Dowling e scritto nel 1950, dà il titolo all'intera raccolta, pubblicata postuma nel 1951. Tema centrale è quello della morte - che probabilmente il poeta sentiva già gravare su di sé - come evento ineluttabile, che distrugge e cancella qualsiasi cosa senza lasciare nessuna speranza. La morte accompagna continuamente gli uomini, è presente in ogni momento della loro vita come possibilità sempre realizzabile e come realtà di fatto. Non sfugge al suo potere distruttivo neppure la bellezza sensuale e affascinante della donna - figura cara a Pavese e già presente in molte sue opere in prosa e in poesia oltre che nella vita reale - sintetizzata dagli elementi tipici della femminilità, evocati dalla tradizione poetica occidentale, gli occhi. Questi, di fronte alla morte, saranno parole vuote, incapaci di continuare ad esprimere tutti i significati vitali che invece evocavano prima. Occhi che, riflessi nello specchio, sono muti come lo saranno davanti alla morte. Lo specchio si profila allora come metafora dell'ambiguità tragica della vita, diventa il mezzo per evidenziare la caducità della vita, il suo essere esposta alla fine, come la scrittura, alternativa al vivere in quanto creazione di una immagine fittizia rispetto alla realtà.


Verrà la morte e avrà i tuoi occhi -
questa morte che ti accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Cesare Pavese

Cesare Pavese (1908-1950) fu un poeta, narratore, saggista e traduttore italiano. Figlio di un cancelliere del Palazzo di Giustizia di Torino, ebbe un'infanzia piuttosto triste a causa della morte prematura di tre fratelli e del padre. Già dall'adolescenza cominciò ad appassionarsi alla letteratura, buttando giù i primi versi. Iscrittosi alla facoltà di Lettere, si innamorò della letteratura americana e in particolare di Walt Whitman, autore che divenne l'argomento della sua tesi di laurea. Al 1930 risale la sua attività di traduttore sistematico e di saggista, che egli portò avanti, per poter vivere, insieme a quella di insegnante supplente nelle scuole dei dintorni e di insegnante privato. Nel 1934 collaborò con la casa editrice Einaudi, da poco fondata, dirigendo per un anno la rivista "Cultura". L'anno successivo fu accusato dal regime di propaganda antifascista e arrestato. Dopo il processo, la detenzione in carcere fu commutata in confino presso Brancaleone Calabro. Terminato l'anno di confino, ritornò a Torino, dove riprese l'attività di traduttore, collaborando prima con la Mondadori e poi stabilmente con la Einaudi. In questo periodo iniziò anche la sua attività di narratore in prosa, dando alla luce lavori come Paesi tuoi e Il carcere. Nel 1940 iniziò una relazione sentimentale con la giovane Fernanda Pivano (futura giornalista e traduttrice), sua ex allieva, che rifiutò però due volte di sposarlo. Assunto regolarmente dalla Einaudi, nel '43 venne trasferito a Roma, dove gli giunse la comunicazione di chiamata alle armi; in seguito però all'accertamento di un'asma di tipo nervoso ne venne dispensato e fece ritorno a Torino. Dopo la guerra si iscrisse al Partito comunista, forse perché sentiva il bisogno di incanalare in un'attività concreta e sociale il dolore per la morte di tanti amici durante la guerra, iniziando anche la collaborazione con L'Unità, dove conobbe Italo Calvino. Alla fine del'45 fu mandato a Roma, per potenziare la sede dell'Einaudi nella capitale, ma questo soggiorno ridestò in lui la malinconia. Qui si innamorò della segretaria Bianca Garufi. Dal '47 riprese febbrilmente l'attività editoriale ma soprattutto letteraria. Inaugurò due collane editoriali, la "Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici" e la "Coralli" e scrisse i suoi più bei romanzi. Nell'ultimo viaggio a Roma conobbe l'ennesimo amore sfortunato, l'attrice Constance Dowing, che lasciò triste e illuso. Nell'estate del '50 ricevette il Premio Strega per La bella estate. Il 27 agosto dello stesso anno, ancora scosso per la recente delusione amorosa e deluso dal mondo morì in una camera dell'albergo Roma a Torino. Ebbe funerali civili ma non religiosi, perché ateo e suicida.
Tra le opere di Pavese ricordiamo: Paesi tuoi (romanzo, 1941), La spiaggia (romanzo 1941), Lavorare stanca (poesie 1940), Feria d'agosto (racconti 1946), Dialoghi con Leucò (racconti - conversazioni 1947), Il compagno (romanzo 1947), La casa in collina (racconto 1949), Il diavolo sulle colline (racconto 1949), La bella estate (racconto 1949), Tra donne sole (racconto 1949), Il carcere (racconti 1949) La luna e i falò (romanzo 1950),  Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (poesie 1951), La letteratura americana e altri saggi (saggi 1951), Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950 (diario 1951), Notte di festa (racconti 1953), Lettere 1924-1944 ( lettere 1956), Fuoco grande (romanzo incompiuto 1959), Poesie del disamore ed altre poesie disperse (poesie 1961), Poesie edite e inedite (poesie 1962), Otto poesie inedite e quattro lettere a un'amica (1928-1929) (poesie e lettere 1964), Lettere 1945-1950 (lettere 1966), Ciau Masino (racconto fuori commercio 1968), Interpretazione della poesia di Walt Whitman: tesi di laurea, 1930 (2006). 
Intensa fu anche l'opera di Pavese traduttore, che ci regalò in italiano i capolavori di Sinclair Lewis, Herman Melville, John Steinbeck, Daniel Defoe, Charles Dickens, Gertrude Stein, John Dos Passos.