22 dicembre 2013

Cristina Aubry: il personaggio, l'attrice, la donna

di Giovanna Cafaro e Roberto Marino

Un artista è davvero un personaggio unico. Una sorta di catalizzatore magico, capace di coagulare diverse energie creative ed esplorare percorsi inediti attraverso un codice espressivo del tutto originale e personale, che tocca le corde sensibili ed emozionali dello spettatore. Cristina Aubry ne è un esempio tangibile. Affermata attrice di teatro, televisione, cinema, doppiatrice, insegnante di dizione, non è soltanto una bravissima professionista, ma una persona di un'affabilità rara, di grande gentilezza, sensibilità, una persona comune nel senso più nobile del termine. Quest'anno l’artista ha dato il via al progetto Dire leggere interpretare, un laboratorio di dizione e lettura espressiva in giro per l'Italia, dove l'abbiamo incontrata.

Una domanda un po’ di rito sull’accoglienza che ha trovato in Calabria.
Meravigliosa. Cominciamo con le bottiglie di Cirò… Meglio di così non poteva andare (ride). A parte tutto, una grande disponibilità, una grande gentilezza. Sono stata molto bene, le persone sono state molto carine. Non posso proprio lamentarmi.

Era mai stata in Calabria?
Sono stata varie volte, anche per lavoro, e ci torno volentieri. Sono stata anche al Rendano di Cosenza e devo dire che è uno dei teatri più belli d’Italia. 

A proposito del corso di dizione e lettura espressiva Dire leggere interpretare, cos’è un corso di dizione, a chi si rivolge?
Un corso di dizione, in genere, è considerato una gran palla (ride), perché è pieno di regole e regolette varie. La dizione, come sappiamo, è l’insieme di suoni che codificano il linguaggio. Una lingua vale per tutto uno stato, come l’Italia, che ha varie radici, vari ceppi, vari dialetti. Queste sono le sue ricchezze al punto che esistono espressioni dialettali non traducibili in italiano per la loro potenza, per la loro forza evocativa. Esiste poi però una lingua italiana che è molto bella e che, per chi usa la comunicazione – non solo gli attori, i doppiatori, ma anche per chi ha rapporti con il pubblico, insegnanti, avvocati – può servire, perché le regole esprimono chiarezza e sottolineano il bello delle parole. Facevo l’esempio della parola soave che linguisticamente evoca già il suo contenuto o della parola furente che fa altrettanto. Cerchiamo di non staccare mai la parola dai suoi contenuti. In questo senso la dizione diventa interessante. Se è soltanto una regola pedissequa, non ci interessa; ma se la dizione fa parte del senso e del corpo della parola, per me diventa interessante. La cosa che io mi sono un po’ divertita a fare è cercare di alleggerire il tutto e perciò di costruirci filastrocche, giochi, scioglilingua, in modo da imparare tutto questo quasi come delle canzoncine per bambini, delle cose che penetrano in quel significato e anche nella piacevolezza di quello che si dice. In questo modo si rendono piacevoli quelle regole, che enunciate a memoria sono un po’ noiose e magari neanche ti rimangono impresse, mentre invece se trasformate in filastrocca… Ad esempio: Che rancore quel signore! Così ci si ricorda che le parole che terminano in -ore devono essere pronunciate con l’accento chiuso. 

Parlando di teatro, il suo interesse per un teatro per così dire non tradizionale è alla base della sua esperienza. Parliamo di Grotowski, del suo teatro povero, spoglio di ogni orpello superfluo e improntato alla sola relazione teatrale dove l’attore non è più l’ipokrites aristotelico che finge, ma è se stesso, una sorta di attore-santo; Peter Brook con l’idea di una drammaturgia d’azione. Poi c’è stato l’incontro, il sodalizio con Emanuela Cocco e la nascita della compagnia teatrale Franz Biberkoff. Qual è l’obiettivo principale di questa nuova ricerca drammaturgica oggi? 
Diciamo intanto che io vengo da un’esperienza di formazione all’Accademia di Arte Drammatica Silvio D’Amico, perciò quanto di più classico esista. Ho una certa età (sorride), per cui mi sono formata anche guardando Peter Brook, Grotowski, che ho avuto la fortuna di vedere a Roma negli anni ’80 e che mi hanno aperto un mondo. Sono sempre andata a capofitto verso cose di cui mi innamoravo e che seguivo. Per un periodo ho deciso di fare teatro tradizionale, dopo di che sono andata su tutt’altro, cioè teatro di strada, trampoli, mangiatori di fuoco, clown, cose così. Dopo aver fatto un po’ di esperienze, tournée al servizio di grandi attori come Nando Gazzolo, mostri sacri degli anni che furono (ride), ho deciso, anche attraverso gli incontri, di dedicarmi alla nuova drammaturgia sia straniera che italiana. Ho avuto la fortuna di lavorare in Rai in una trasmissione, Teatro giornale di Rai3, in diretta ogni giorno per tre anni, fondata da Pierattini e Cavosi, e da allora la mia ricerca è stata, come scrivono oggi, nel mondo, per promuovere anche testi stranieri di autori che non si conoscono. L’incontro con Emanuela Cocco è nato proprio grazie al suo testo, Nel Giardino, che lei mi ha spedito; non mi conosceva. L’ho trovato un dramma moderno – lei all’epoca era una ragazzina, ma aveva già vinto un premio – che mi ha decisamente conquistato. Ho recitato questo testo a Roma, dopo di che con Manuela ci siamo proprio artisticamente innamorate. Abbiamo cominciato a collaborare, lei ha molti racconti. Io non sono proprio una lettrice, però lei mi ha iniziata ai racconti. Con Emanuela vorremmo cercare di lavorare sul teatro, semplicemente sulla vita riportata sulla scena. Lei è una persona veramente di grande cultura, che mi insegna… C’è veramente un bello scambio. 

E per quanto riguarda invece l’esperienza come regista? 
Come regista ho fatto delle cose. Non mi interessa più di tanto, anche se poi nei laboratori si fa regia, perché in realtà metti in scena delle cose. Forse la regia più bella è stata quella di Matematica sentimentale, un testo di Palladino che ho diretto io, sempre con la formula del racconto teatrale e cioè dell’attore che si sdoppia e diventa tutti i personaggi del racconto. Uno stesso racconto dove c’è un dialogo, ma il dialogo non lo devono fare sempre i due personaggi. Dialogo e narratore passa da persona a persona. E’ una convenzione. Quando tu capisci la fluidità, lei fa l’amica e poi c’è il narratore, poi di nuovo l’amica diventi tu e diventa lei poi, che so, il narratore… Se tutto viene approfondito e interpretato, si può fare teatro, per finire a Grotowski, con niente, perché basta un segno, basta un costume, un’intonazione della voce che tu entri nella magia. Un po’ come fanno i bambini quando giocano a raccontare le favole. E poi l’ultima regia l’ho fatta con un adattamento mio e di una collega, Anna Maria Loliva, su La Bella e la Bestia. 

Durante la sua attività artistica ha interpretato molti ruoli e personaggi. Cosa le hanno insegnato? 
Tutto (ride). Anche perché spesso, specie nelle parti più nere, più in ombra, lasci parlare loro. Però, parlando loro – è come una terapia secondo me – ci metti delle parti di te. C’è questa grande liberazione nel teatro, che ti permette di essere tutto, come è, solo che nella vita noi siamo spesso costretti a giocare i nostri ruoli e spesso non abbiamo la libertà di poter anche renderci conto delle nostre zone meno nobili e più d’ombra. La bellezza di un testo teatrale è che il personaggio, per quanto assassino, per quanto cattivo, per quanto traditore, è umano. Per citare il grande Umano, troppo umano, diventa poi comunque sempre la valenza che ti tocca. Tutto ciò che non è umano in fondo chi se ne frega. Ciò che è umano però ti tocca. 

La stessa catarsi che c’è nel teatro si ritrova nel cinema... 
Sì, beh… L’esperienza teatrale è l’esperienza più viva che esista, perché si svolge nel qui e ora e c’è un pubblico. Lo scambio è reale. Ormai c’è una virtualità che ha superato la realtà, ma quell’esperienza lì non c’è. Io amo il cinema, intendiamoci, però non è la stessa cosa. Tocca delle corde diverse, c’è uno schermo di mezzo. Il teatro è corpo. 

Proviamo un attimo a sfiorare leggermente la tematica della donna in relazione a due suoi spettacoli, Veronica e Lulù, Ruud e le altre. Lei cerca di interpretare ruoli femminili un po’ a metà strada tra la leggerezza, l’ironia e anche la questione sociale, che è un tema decisamente attuale. Secondo lei si può parlare di una vera emergenza donna in Italia e, se sì, è un fenomeno localizzato in alcune aree o è un fenomeno più vasto? 
E’ una domanda che richiede un tempo di riflessione. Io non lo so, credo che l’urgenza sia individuale. Io non credo tanto nelle urgenze comuni. E’ chiaro che adesso di donne si parla. C’è questa nuova parola, femminicidio, che adesso sta sulla bocca di tutti. Evidentemente questo tema c’è sempre stato, soltanto più silente. Tocca e sta venendo fuori, per cui ben venga. Tutto ciò che viene a galla, specie se viene dall’inconscio ricco di violenza, è giusto che sia. Se ne parla, vuol dire che si tira fuori qualcosa. Si denuncia, se ne prende coscienza che questa cosa ce l’hai davanti agli occhi. Personalmente, io non credo nel teatro a tesi. Io sento che preferisco raccontare una storia non volendo dare una lezione. Tanto è vero che mi è piaciuto tanto Veronica ed ho accettato di interpretarlo, perché in realtà, è vero che la Veronica di cui si parla è quella Veronica lì, ma è una donna che è la moglie di un uomo di potere e che ha sempre le problematiche umane della donna dell’uomo di potere. Non ci interessa parlare di Veronica Lario, se ne è già parlato pure troppo. E’ chiaro che tu la chiami così, perché quello è quasi un archetipo. Quello che ci interessa però è sentire questo personaggio, questa donna in quei panni là e perciò con tutte le sue contraddizioni, con questa sua rabbia, questo suo furore per aver dovuto soffocare, aver scelto. Nella Veronica di Franceschelli c’è l’assoluta coscienza e quasi rivendicazione di quello che ha fatto, però nello stesso tempo c’è la solitudine. Infatti è una Veronica lunare, avvolta in questa specie di abito da sposa, che però è come un bozzolo e lei dentro ha questa compressione, questo sarcasmo, questa rabbia, che non può che esprimere contro se stessa. Ecco, questo tema è squisitamente umano. Non è di Veronica Lario, che magari non è neanche così (ride). Non lo sappiamo, ma non ci interessa. Penso poi che ognuno abbia le proprie tematiche e qualsiasi tematica… La Bella e la Bestia per dirne una, è la tematica del diverso, dell’ombra, della propria bestia che si redime solo se la ami, ma non occorre dirlo, occorre scegliere una storia e raccontarla. Il racconto di Colette, che abbiamo letto, è un racconto all’apparenza molto leggero, in realtà dentro c’è tutta una storia di cambiamento, una evoluzione dei personaggi, ed è bello questo lavoro, credo, per poter avvicinare qualsiasi cosa con degli occhi che cercano e si fanno delle domande. In questo caso poi avere anche qualche risposta. 

Sempre in Veronica, nella parte finale, la protagonista chiede alla voce corale se la gente parli di lei, se è rimasto qualcosa di lei. Questa parte colpisce molto perché viene fuori tutto il desiderio di protagonismo del personaggio, in controluce rispetto alla vita che la donna ha vissuto come individuo oppresso, frustrato. 
Esatto, è il suo dramma. Il dramma di Veronica si riassume in questo: lei è solo luce riflessa. E quante donne sono luce riflessa? E’ molto bella la risposta dell’altra donna: «No! Di te nessuno dice nulla». E’ raccapricciante. 

Consiglierebbe ad un giovane, una giovane d’oggi, aspiranti attori, di percorrere questa strada? 
Sì! Anche se ci sono pochi soldi, se stanno togliendo tutte le sovvenzioni possibili, se lo stato non se ne occupa, se faranno una vita di stenti, è il lavoro più bello del mondo, per cui io non posso che dire… sì!. E’ un lavoro che richiede coraggio, però sfido chiunque a divertirsi col proprio lavoro, non è facile. Certo, bisognerebbe aiutarlo un po’ questo lavoro, questo sì. Bisognerebbe trovare un po’ di luoghi, parlo di Stato. Anche nello stesso spettacolo… Io ora non voglio dire, però uno che fa la casa del Grande Fratello che poi debba andare ai Parioli a fare i “tutti esauriti” ed essere pagato fior di miliardi non è tanto etico. Perché poi i ragazzini che voglio fare da grande? Quello. E’ un po’ il risultato triste di quello che siamo diventati. Così è. E’ lo specchio di quello che siamo diventati. Questo lavoro è un percorso di conoscenza, secondo me, se fatto in un certo modo. E’ un bel percorso di conoscenza.

0 commenti :

Posta un commento