Sabato in Poesia: "Vendemmia" di Marino Moretti

Vendemmia di Marino Moretti è una poesia tratta dalla raccolta Sentimento: pensieri, poesie...

Roma capitale d'Italia

Chissà quanti studenti ed ex studenti liceali si sono trovati a tradurre la famosissima frase del De Oratore...

L'origine della crisi finanziaria statunitense

La crisi che ha interessato i mercati finanziari dei paesi maggiormente sviluppati, e che gli esperti...

Così cinque anni fa cominciava la crisi...

"Era una notte buia e tempestosa...", questo è l'incipit dell'interminabile romanzo che Snoopy...

Sabato in Poesia: Estratto di "Beppo, racconto veneziano" (George Gordon Lord Byron)

Beppo è un poemetto satirico in ottave ariostesche (secondo lo schema metrico ABABABCC), attraverso il quale Byron affronta...

28 settembre 2013

Sabato in Poesia: "Autunno" di Francesco Guccini

Autunno è una canzone di Francesco Guccini, inserita nell'album Stagioni pubblicato nel 2000. Leggendo il testo, dal taglio molto intimistico, si percepiscono immediatamente le sensazioni di malinconia, nostalgia, rimpianto, lentezza, che questa stagione sembra portare con sé e, di conseguenza, trasmettere. In effetti, la mescolanza tra le immagini (molto decise, quasi al limite di una "maniacale" precisione descrittiva) di una natura che apparentemente si addormenta e il susseguirsi dei moti nell'interiorità dell'uomo dà vita ad una certa continuità crepuscolare della realtà. Bisogna stare attenti però, l'apparente quiescenza del tempo è più una percezione che una realtà; le giornate vengono consumate, pur nella loro noiosa ripetitività, e ritrovarsi dall'autunno dell'anno a quello della vita potrebbe essere questione di poco, amara sorpresa. 


Un'oca che sguazza nel fango,
un cane che abbaia a comando,
la pioggia che cade e non cade,
le nebbie striscianti
che svelano e velano strade;
profilo degli alberi secchi,
spezzarsi scrosciante di stecchi,
sul monte ogni tanto gli spari
e cadono urlando di morte
gli animali ignari.
L'autunno ti fa sonnolento,
la luce del giorno è un momento
che irrompe e veloce è svanita;
metafora lucida di quello che è la nostra vita.
L'autunno che sfuma i contorni
consuma in un giorno più giorni,
ti sembra sia un gioco indolente
ma rapido brucia giornate
che appaiono lente.
Odori di fumo e foschia,
fanghiglia di periferia,
distese di foglia marcita
che cade in silenzio
lasciando per sempre la vita;
rinchiudersi in casa a aspettare
qualcuno o qualcosa da fare,
qualcosa che mai si farà
qualcuno che sai non esiste e che non suonerà;
rinchiudersi in casa a contare
le ore che fai scivolare
pensando confuso al mistero
dei tanti «io sarò» diventati per sempre «io ero»;
rinchiudersi in casa a guardare
un libro, una foto, un giornale
ignorando quel rodere sordo
che cambia «io faccio»
e lo fa diventare «io ricordo».
La notte è di colpo calata,
c'è un'oscurità perforata
da un'auto che passa veloce
lasciando soltanto al silenzio
la buia sua voce;
rumore che appare e scompare,
immagine crepuscolare
del correre tuo senza scopo,
del tempo che gioca con te
come il gatto col topo.
Le storie credute importanti
si sbriciolano in pochi istanti,
figure e impressioni passate
si fanno lontane e lontana così è la tua estate;
e vesti la notte incombente
lasciando vagare la mente
al niente temuto e aspettato
sapendo che questo è il tuo autunno
che adesso è arrivato.

Francesco Guccini

Francesco Guccini (1940 - vivente), cantautore e scrittore di libri gialli, nasce a Modena il 14 gennaio. A causa della guerra trascorre l'infanzia e l'adolescenza a Pavana, piccola località di confine dell'Appennino Pistoiese a cui resterà sempre legato. Nel 1960 si trasferisce a Bologna, dove frequenta la facoltà di Magistero Lettere e, per due anni fa il cronista alla Gazzetta di Modena. Insegna per vent'anni lingua italiana al Dickinson College, scuola off-campus con sede a Bologna, dell'Università della Pennsylvania. Nel 1967, si ha il suo debutto come cantautore con la pubblicazione del suo primo disco, Folk Beat n.1, che apre la strada ad una fortunata e meritata carriera, ormai quarantennale, di cantautore. Nel 1989, Guccini fa il suo esordio nel mondo della letteratura con la pubblicazione del suo primo libro, Croniche epafaniche. Riceve numerosi premi e riconoscimenti, tra cui nel 2001 la laurea ad honorem in Scienze della Formazione dalle Università di Bologna - Modena e Reggio Emilia. 
Le sue principali opere sono: Folk Beat n.1 (disco 1967), Due anni dopo (disco 1970), L'isola non trovata (disco 1970), Radici (disco 1972), Opera buffa (disco 1973), Stanze di vita quotidiana (disco 1974), Via Paolo Fabbri 43 (disco 1976), Amerigo (disco 1978), Guccini (disco 1983), Signora Bovary (disco 1987), Croniche epafaniche (libro 1989), Quello che non... (disco 1990), Parnassius Guccinii (disco 1993), Vacca d'un cane (libro 1993), Storie d'inverno (libro 1994), Novecento e Novecento: il tempo del lavoro, il tempo del riposo: storie e genti dell'Appennino modenese (libro 1995), D'amore di morte e di altre sciocchezze (disco 1996),  La legge del bar e altre comiche (libro 1995), Macaroni. Romanzo di santi e delinquenti (libro 1997), Un disco dei Platters. Romanzo dei di un maresciallo e di una regina (libro 1998), Dizionario del dialetto di Pavana. Una comunità tra Pistoiese e Bolognese (libro 1998), Un altro giorno è andato (libro 1999), Stagioni (disco 2000), Questo sangue che impasta la terra (libro 2001), Storia di altre storie (libro 2001), Lo spirito e altri briganti (libro 2002), Il vecchio e il bambino (libro 2002), Cittanova Blues (libro 2003), Ritratti (disco 2004), L'uomo che reggeva il cielo (libro 2005), Icaro (libro 2008), L'ultima Thule (disco 2012).

21 settembre 2013

Sabato in Poesia: "Vendemmia" di Marino Moretti

Vendemmia di Marino Moretti è una poesia tratta dalla raccolta Sentimento: pensieri, poesie, poemetti, novelline per la giovinezza del 1908. Come si può facilmente notare, la lirica è composta da quattro brevi e rapide strofe con rima incrociata, secondo lo schema metrico ABBA, CDDC, etc. L'episodio della vendemmia viene descritto come momento gioioso, festoso, che manifesta tutta la ritualità e la sacralità di un antico evento che lega l'uomo alla natura, alla terra. Da notare l'insistenza sulle tonalità di luci e colori che creano un quadretto apparentemente innocuo, ma che in realtà esprime le tematiche di nostalgia, bisogno di quotidianità, limitatezza della poesia alla descrizione della normalità, a cui il poeta crepuscolare guarda con abbandono.




Nei campi è tutto un bagliore,
di grappoli d'oro, di falci,
tutto un gioire di tralci
che ostentano qualche rossore.

Nei campi è tutta una festa 

di luci, di ombre, di canti:
ridon gli sguardi esultanti
per tanta messe rubesta.

S'alzan gli accenti sonori 

delle più gaie canzoni
dai verdi rossi festoni 
e dagli intrepidi cuori.

E s'ode insieme una schiera

di donne cantilenare 
nel breve cielo che pare
un cielo di primavera.

Marino Moretti


Marino Moretti (1885-1979) nacque a Cesenatico il 18 luglio. Poeta, scrittore, romanziere e autore di opere teatrali, è considerato uno degli esponenti della corrente del Crepuscolarismo. Abbandonate le prematuramente le scuole, tentò la carriera teatrale a Firenze con scarsi risultati. Il suo debutto letterario si ebbe nel 1905 con la pubblicazione della prima raccolta di poesie e della prima novella. Durante la Grande Guerra, si arruolò come infermiere volontario negli ospedali da campo e, durante la dittatura fascista, firmò il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Nel secondo dopoguerra terminò la sua carriera di romanziere e i suoi sforzi saranno tutti dedicati alla revisione e alla ristampa delle sue opere precedenti. La sua carriera di poeta proseguì invece fino al 1974. 
La vasta produzione di Moretti comprende: Fraternità (poesie 1905), Paese degli equivoci (novelle 1905), Sentimento: pensieri, poesie, poemetti, novelline per la giovinezza (1908), I lestofanti (novella 1909), Poesie scritte col lapis (1910), Poesie di tutti i giorni (1911), I poemetti di Marino (1913), I pesci fuor d'acqua (novella 1914), Il giardino dei frutti (poesie 1916), Il sole del sabato (romanzo 1916), La bandiera alla finestra (novella 1917), Guenda (romanzo 1918), Conoscere il mondo (novella 1919), Personaggi secondari (novella 1920), Una settimana in Paradiso e altre novelle (novelle 1920), La voce di Dio (romanzo 1920), Cinque novelle (novelle 1920), Né bella né brutta (romanzo 1921), Due fanciulli (romanzo 1922), Puri di cuore (romanzo 1923), La vera grandezza (novella 1925), Le capinere (novella 1926), Il segno della croce (romanzo 1926), Allegretto quasi allegro (novella 1927), Il trono dei poveri (romanzo 1928), Sorprese del buon Dio (novella 1932), L'Andreana (romanzo 1935), Novelle per Urbino (novelle 1937), Anna degli elefanti (romanzo 1937), La vedova Fioravanti (romanzo 1940), I coniugi Allori (romanzo 1946), Il fiocco verde (1948), Uomini soli (novella 1954), Doctor Mellifluus (romanzo 1954), 1945 (novelle 1956), La camera degli sposi (ultimo romanzo 1958), L'ultima estate (poesie 1969), Tre anni e un giorno (1971), Le poverazze (1973), Diario senza data (1974).   

20 settembre 2013

Roma capitale d'Italia

di Roberto Marino 


Chissà quanti studenti ed ex studenti liceali si sono trovati a tradurre la famosissima frase del De Oratore di Cicerone: «Historia magistra vitae», "La storia è maestra di vita". Ed effettivamente il grande oratore latino non si sbagliava affatto. In particolare, la Storia diventa ancora più maestra quando ci passa molto vicino, proprio come è accaduto il 20 settembre 1870, giorno della Breccia di Porta Pia. 

L'episodio dello sfondamento delle mura della Porta - disegnata da Michelangelo e fatta costruire da Papa Pio IV tra il 1561 e il 1565 - segna l'effettivo completamento del processo risorgimentale, che ha portato all'unificazione del regno d'Italia. Va precisato però che l'attuale superficie del territorio italiano (con l'aggiunta dell'Istria) si raggiunse soltanto in seguito alla fine della I Guerra Mondiale con i trattati di Parigi e Rapallo, attraverso i quali l'Italia ottenne il Trentino, Trieste e, appunto, l'Istria. 

Come ormai tutti sanno - non solo grazie allo studio della storia fatto a scuola, ma anche alle celebrazioni del 150° anno della unificazione italiana che si sono svolte due anni fa e che hanno rinfrescato la memoria a chi ne aveva bisogno - il 17 marzo 1861 l'Italia fu dichiarata regno unitario con l'assunzione del titolo regale da parte di Vittorio Emanuele II. Rimaneva però ancora aperta la questione romana. 

Il 27 marzo 1861, il presidente del consiglio dei ministri, Camillo Benso conte di Cavour, aveva affermato, in un solenne discorso tenuto alla Camera dei deputati, che soltanto Roma avrebbe potuto ricoprire il ruolo di capitale del nuovo stato. Per motivazioni di elevato spessore morale, culturale, storico ed intellettuale precisa Cavour nel suo discorso, in quanto «Roma è la sola città d'Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali, tutta la storia di Roma, dal tempo dei Cesari al giorno d'oggi, è la storia di una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio, di una città, cioè, destinata ad essere la capitale di un grande stato». 

Uomo d'altri tempi Cavour, non c'è dubbio, in grado di suscitare grandi passioni, infiammare i cuori in vista della realizzazione di un grande progetto - del resto lo aveva già dimostrato guidando politicamente e culturalmente il processo di unificazione - stemperando, contemporaneamente, l'eccessivo interventismo sia delle forze di sinistra che di quelle nazionalistiche di destra attraverso un richiamo alla grandezza storica e morale di Roma e alla sua neutralità culturale. Le prime avrebbero infatti voluto marciare su Roma già in quello stesso 1861 per realizzare uno stato laico, le seconde avrebbero voluto fare altrettanto per orgoglio nazionale. 

Un'azione di quel tipo e in quelle condizioni storiche e politiche non era però possibile e neppure auspicabile. A difendere la città di Roma, sede pontificia e simbolo del potere temporale del papa e della cristianità, c'erano i francesi di Napoleone III. Lo stesso imperatore francese che aveva aiutato l'Italia a realizzare la propria unità a spese dell'Austria e che doveva difendere il cattolicesimo dalle incursioni italiane, pena l'abbandono dell'elettorato cattolico. Invadere Roma avrebbe significato scatenare una guerra con la Francia, che il neonato regno d'Italia non avrebbe potuto sostenere.

Per questa ragione, nel settembre 1864 i due Paesi firmarono una convenzione che risolveva la questione romana. Il documento stabiliva che Napoleone III accettava di ritirare le proprie truppe da Roma e lo stato italiano si impegnava a non invadere lo Stato pontificio e a trasferire la capitale da Torino a Firenze. Fu scelta la città toscana, sia per la sua posizione strategica che la poneva al riparo da eventuali invasioni della valle Padana, e sia logistica in quanto posta al centro del Paese. Ma la soluzione lasciava ovviamente delusi i protagonisti e sostenitori del Risorgimento - soprattutto i democratici - che volevano dare un taglio netto con la storia preunitaria e con ciò che restava di essa, che si manifestava nel potere temporale della Chiesa. 

L'occasione per realizzare il progetto della presa di Roma si manifestò nel 1870, durante la guerra franco-prussiana. L'1 settembre di quell'anno, l'esercito francese fu sconfitto a Sedan dal comandante in capo dell'esercito prussiano, Helmuth von Moltke, che lo costrinse alla resa. Napoleone III perdeva il potere e l'Italia, cinque giorni dopo, pensò di approfittarne chiedendo al papa Pio IX il consenso per annettere Roma e il Lazio al regno d'Italia in cambio di alcune garanzie. Il pontefice rifiutò e il 20 settembre le truppe italiane entrarono a Roma, violando la sovranità dello stato pontificio e causando simbolicamente uno squarcio nelle mura della Porta Pia a segno della rottura di un sistema di potere secolare. Nel gennaio dell'anno successivo, la capitale fu spostata a Roma e il 13 maggio fu approvata la legge delle guarentigie (garanzie), che assicurava al papa l'inviolabilità della persona, gli onori sovrani, il diritto ad un corpo di guardia armato a difesa dei palazzi vaticani, il pieno esercizio delle proprie funzioni di capo spirituale e una generosa dote finanziaria annua come risarcimento pari a 3.225.000 lire (rivalutato dall'Istat al 2009 in circa 13,5 milioni di euro).

Il Papa non accettò la legge, definendola un «mostruoso prodotto della giurisprudenza rivoluzionaria», si dichiarò prigioniero politico e promulgò il decreto Non expedit (non conviene), attraverso il quale vietava ai cattolici di partecipare come elettori e come eletti alla vita politica dello Stato italiano. Soltanto in epoca giolittiana, nel 1913 con il patto Gentiloni, la questione fu risolta. Il nuovo papa Pio X accettò la partecipazione dei fedeli alla vita politica, allo scopo di fermare l'avanzata delle forze socialiste e anarchiche e nel 1919 nacque, ad opera di don Luigi Sturzo, il primo partito cattolico italiano col nome di Partito Popolare Italiano (PPI). 

Ciò che accadde dopo è storia del Novecento, che ben conosciamo. Certo è che il popolo italiano difficilmente toccò, nei decenni che seguirono, punte di alto valore morale come durante il Risorgimento, se si escludono rare eccezioni. Grandi ideali, passioni, impegno civile da parte di intellettuali e gente comune, che, in prima persona e spesso rischiando la propria vita e la libertà, si impegnarono a realizzare un sogno secolare; questo fu il Risorgimento. Oggi sembra che quei valori siano stati messi da parte, perché sempre più spesso notiamo grandi difficoltà nel riuscire a fare squadra e realizzare il bene comune. Individualismo fine a se stesso, corruzione, mancanza di visione d'insieme e senso della collettività, scarsa lungimiranza della classe dirigente, litigiosità inconcludente ed autoreferenziale della politica stanno generando un cocktail pericoloso per la società. Tutti elementi che "fruttano" all'Italia una cattiva fama all'estero, simbolo di una vulgata forse un po' approssimativa ma anche quadro di una gran fetta di società esistente. 

Riprendere in mano valori sani è invece il miglior modo per onorare la nostra cultura - fatta anche di elementi dignitosi e invidiati -, dimostrare di aver imparato la lezione della Storia, non lasciare che questa ci passi di lato. 

15 settembre 2013

L'origine della crisi finanziaria statunitense

di Tommaso Andreoli

La crisi che ha interessato i mercati finanziari dei paesi maggiormente sviluppati, e che gli esperti hanno indicato come la più grave dal dopoguerra, trae origine nell’agosto del 2007 dal segmento dei mutui immobiliari statunitensi: i cosiddetti subprime.

Nonostante il complesso scenario economico rimanga ancora oggi tutt’altro che di semplice lettura, è comunque possibile, in estrema sintesi, giungere a evidenziare quattro elementi di tipo strutturale e comportamentale, la cui interazione ha di fatto innescato lo scoppio della crisi:
  1. una politica monetaria che la Federal Reserve (Fed), la banca centrale americana, ha per lungo tempo perseguito, mantenendo bassi i tassi di interesse a breve termine;
  2. l’eccessivo trasferimento del rischio di insolvenza a soggetti terzi da parte di istituti finanziari mediante prodotti ad hoc che facilitassero l’espansione del credito;
  3. l’inefficace e lacunosa regolamentazione delle istituzioni finanziarie;
  4. l’errata valutazione da parte delle società di rating circa le rischiosità legate alle attività finanziarie.
Nel periodo che va dal terzo trimestre 2001 al primo trimestre 2005, la Fed fissò tassi di interesse nominalmente bassi per attutire l’impatto recessivo dovuto all’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre e allo scoppio della bolla dot.com. Tale provvedimento - unito alla precisa volontà del governo statunitense di dare concretezza allo slogan «Una casa per tutti» e consentire anche ai cittadini delle fasce meno abbienti d'essere possessori di una casa (nel 2003 venne approvata la legge American Dream Downpayment Act che introdusse un sussidio federale all’acquisto di case interamente finanziate con i prestiti) - diede un forte impulso all’espansione degli impieghi delle banche, in particolare nel settore immobiliare.

A tal proposito risulta significativo notare la crescita dei volumi dei mutui residenziali concessi negli Stati Uniti, che dal 2000 al 2006 quasi raddoppiarono il loro ammontare fino a giungere a 11.000 miliardi di dollari, di cui 6000 miliardi risultavano cartolarizzati. È necessario altresì ricordare che nel mercato statunitense questi mutui si dividono in quattro categorie: i) Agency; ii) Jumbo; iii) Alt-A; iv) Subprime.

Le prime due tipologie vengono concesse a persone considerate «affidabili»; la terza a creditori che lo sono di meno; mentre la quarta e ultima categoria viene concessa a mutuatari poco «bancarizzabili», vale a dire con un’elevata probabilità di insolvenza (spesso si dice con basso merito di credito). La concessione di mutui subprime avvenne anche attraverso la particolare formula dei cosiddetti contratti NINJA (No Income, No Job, No Asset), e grazie appunto alla modifica della regolamentazione dei mutui ipotecari da parte delle amministrazioni democratica e repubblicana, rispettivamente sotto la Presidenza Clinton e quella Bush, che si servirono dei noti istituti Freddie Mac e Fannie Mae (1) per favorire la concessione di finanziamenti.

Dal punto di vista delle condizioni contrattuali, i mutui subprime sono generalmente caratterizzati da:
  • rapporto tra ammontare del prestito e valore dell’immobile (loan-to-value ratio o LTV) uguale o persino al superiore al 100%;
  • tasso variabile (Adjustable Rate Mortgages);
  • tasso definito “allettante” (teaser rate), chiamato così perché molto basso per i primi due o tre anni e successivamente destinato a incrementare per via della revisione delle condizioni contrattual (reset).
A regime, i mutui subprime furono tutt’altro che alla portata di chi li accese. Questi erano infatti caratterizzati in media da tassi più alti di quelli destinati a clienti primari. Nonostante ciò, gli intermediari finanziari specializzati in mutui (le finanziarie e mortgage brokers) e le banche commerciali in qualità di mortgage originators hanno addirittura venduto mutui subprime a questi ultimi, adottando spesso pratiche di offerta insistenti, talvolta aggressive, al limite della legalità.

La valutazione del merito di credito è stata in genere molto approssimativa, con concessione di mutui di tipo low doc e no doc, ossia basati su scarsa e totale assenza di documentazione. Si è calcolato che all’incirca il 50% dei mutui subprime sono stati effettuati da mortgage brokers, intermediari che non erano soggetti alla supervisione della vigilanza e scarsamente regolati dai singoli Stati, incentivati nella loro vendita da forti guadagni.

La costante immissione di liquidità nel sistema bancario aveva, tra gli altri, l’obiettivo di espandere il credito al consumo, così da favorire una maggiore capacità di spesa pro capite e di riflesso una crescita delle aziende e dell’intero sistema americano. La politica creditizia alimentò dunque una politica del debito, che portò le famiglie americane a investire sempre di più in beni di consumo e immobili, aumentando fino all’eccesso il loro livello di indebitamento.

Dal 2001 al 2006 al lievitare del prezzo delle case si è nel contempo assistito alla crescita dell’indebitamento, con conseguente peggioramento della qualità del credito; quest’ultimo ha necessitato di un ricorso sempre maggiore al trasferimento del rischio di credito al mercato attraverso l’utilizzo di nuovi strumenti finanziari detti prodotti strutturati, concepiti appunto per spostare verso creditori terzi gli alti rischi di insolvenza.

Un tipico esempio di questa classe di prodotti sono gli Asset Backed Securities (ABS), vale a dire titoli obbligazionari emessi a fronte di un portafoglio di crediti costituito da prestiti, bond, mutui o altre attività finanziarie. In altre parole, alcuni dei crediti che la banca ha concesso a suoi clienti vengono in qualche modo «impacchettati» e ceduti a una società esterna detta Special Purpose Vehicle (SPV) - “società veicolo con un obiettivo speciale” -, che nella maggioranza dei casi è creata appositamente dalla stessa banca.

Il compito svolto dalla SPV è quello di acquistare il portafoglio crediti della banca, acquisto che viene finanziato dall’emissione di una serie di obbligazioni denominate ABS. Il rimborso ai detentori di tali obbligazioni avviene mediante il denaro ricevuto dai flussi di cassa, cioè interessi e capitale, generati dal portafoglio crediti.

In conclusione, la creazione delle SPV e l’emissione da parte loro di obbligazioni ABS ha consentito alle banche di distribuire il rischio connesso alla concessione di crediti su un numero elevato di investitori.

La liquidità generata dalla vendita del portafoglio crediti poteva così essere usata dalle banche per concedere ulteriori crediti ad altri investitori, quali famiglie e imprese, e formare un circolo virtuoso di denaro. La funzione della banca passò dall'adozione dal modello di origine e detenzione dei prestiti (originate and hold) a quello di origine e distribuzione dei prestiti stessi (originate and distribute), con i vantaggi del caso riassumibili attraverso i seguenti punti:
  • crediti concessi che risultano nei bilanci come attività rischiose, essendo ceduti alle società veicolo non devono essere più contabilizzate;
  • la somma dei crediti che possono essere concessi non dipende più dal denaro raccolto attraverso i depositi a risparmio o i conti correnti;
  • nonostante i crediti concessi aumentino, le banche possono tenere un rapporto tra depositi, crediti concessi e capitale in linea con i vincoli di rischiosità e le dimensioni del portafoglio crediti che le autorità di vigilanza impongono.
Ad acquistare gli ABS erano per la gran parte altre banche pronte a rivenderle a risparmiatori e altri investitori istituzionali. Il loro effettivo valore era tuttavia difficile da stimare, dato che gli ABS appena emessi venivano venduti in mercati cosiddetti over the counter (2). Tuttavia, gli elevati rendimenti che questa tipologia di obbligazioni prometteva e la certificazione di rischiosità considerata bassa da parte delle agenzie di rating, incentivavano gli investitori a comprare questi titoli nonostante, appunto, il loro prezzo non derivasse da contrattazioni giornaliere su mercati borsistici.

La certificazione del livello di rischiosità, chiamata nel gergo rating, che era attestata da società apposite, ha contribuito non poco al gonfiarsi della bolla finanziaria. Le banche che volevano vendere i loro prodotti non potevano che fare ricorso alle agenzie specializzate per fornire una valutazione del rischio legato agli ABS, che a posteriori è risultata del tutto errata.
Le obbligazioni ABS, emesse a fronte dello stesso portafoglio crediti non avevano tutte lo stesso livello di rischio. Apprestiamoci dunque a spiegare più in dettaglio il funzionamento del meccanismo meglio noto
come cartolarizzazione.


Il trasferimento del rischio

Punto di partenza sono i derivati di credito, cioè strumenti che, come detto, permettono il trasferimento del rischio di credito, rappresentato dalla probabilità che un debitore non sia in grado di far fronte ai pagamenti (interessi e capitale).
I casi che si presentano sono in genere due:
  1. quello in cui un intermediario ha acquistato un’obbligazione (in tale situazione si può facilmente trasferire il credito vendendo il titolo);
  2. quello in cui un intermediario ha concesso un mutuo a un investitore che può essere una famiglia o un’impresa.
Tale credito non può essere ceduto tramite la vendita. Ecco perché si ricorre all’utilizzo dei Credit Default Swaps (CDS). In questa situazione, il trasferimento del rischio di credito avviene mediante l’acquisto da parte dell’intermediario A (acquirente della protezione dal rischio di default) di un titolo che obbliga il soggetto B (venditore della protezione) a farsi carico delle eventuali perdite da fallimento del debitore dell’intermediario A (debitore di riferimento). Chi acquista la protezione paga un premio (spread) a B per ricevere; in caso di fallimento del debitore di riferimento C, l’intero debito (vedi Figura 1 in basso). Da notare la seguente differenza: nel caso dell’obbligazione chi si prende il rischio deve acquistare l’obbligazione spendendo molto denaro; invece, nel caso dei CDS, ci si può assumere un rischio equivalente senza spendere nulla alla data attuale. Questo è il motivo per cui il mercato dei CDS è notevolmente cresciuto.

Figura 1: Schema del trasferimento di rischio
Il meccanismo illustrato si collega bene al processo di cartolarizzazione. Un esempio può aiutare a chiarire le idee.

A fronte di un portafoglio di titoli di credito, nella fattispecie rappresentati da mutui per un valore complessivo di $100 milioni, la SPV emette tre tranches di ABS, la cui scadenza è a 5 anni: la tranche equity, la tranche mezzanine e la tranche senior, i cui valori nominale sono pari rispettivamente a $5, $20 e $75 milioni, mentre i tassi di rendimento sono rispettivamente 30%, 10% e 6%. Chi acquista una tranche si assume l’impegno di coprire parte delle perdite dell’eventuale fallimento dei mutui sottostanti, in analogia al caso del soggetto B nel CDS. I pagamenti che affluiscono al portafoglio vengono canalizzati verso le tre tranche mediante un insieme di regole detto a «cascata». Tali pagamenti vengono per primi utilizzati per corrispondere agli investitori della tranche senior il tasso del 6% loro promesso. Se è possibile, vengono successivamente utilizzati per corrispondere ai possessori della tranche mezzanine il tasso del 10%, e, infine, sempre se possibile, per corrispondere agli investitori della tranche equity il tasso del 30%. Nel caso in cui si verifichino insolvenze, i primi a subirne le conseguenze saranno gli investitori della tranche equity. Il loro tasso di rendimento diverrà inferiore al 30%, con probabili perdite in conto capitale. Successivamente, se le insolvenze dovessero essere numerose, saranno gli investitori della tranche mezzanine a subire un decremento del loro tasso di rendimento e così anche per quelli che avevano acquistato la tranche equity.

La procedura di cartolarizzazione veniva implementata in modo tale da attribuire il rating più alto (AAA) alla tranche senior. Tale meccanismo permetteva alla SPV di poter vendere facilmente questo tipo di tranche a investitori istituzionali come i fondi pensione, per esempio, che potevano da regolamento investire in attività finanziarie con il massimo livello di qualità creditizia. La tranche equity spesso rimaneva nei bilanci della banca così da guadagnarsi la fiducia del mercato, segnalando che la parte più rischiosa del prodotto non era in vendita, se non per investitori, come gli hedge funds, la cui propensione al rischio è per loro natura molto elevata. La tranche mezzanine, la parte più difficile da collocare, subiva nuovamente un processo simile a quello descritto nell’esempio precedente, permettendo così ancora una volta di riprocedere alla generazione di titoli con rating ancora migliore a partire da un portafoglio di titoli rischiosi.

I vantaggi che la cartolarizzazione porta agli investitori sono legati:
  1. alla diversificazione del rischio, la quale deriva dalla acquisizione di una partecipazione in un pool di crediti;
  2. alla possibilità di possedere prodotti che, tramite il procedimento della suddivisione in tranche, avevano rischi e rendimenti differenti.
Il principio di diversificazione del rischio entra in gioco nel momento in cui i mutui vengono «impacchettati»; la suddivisione in tranche ha invece agevolato l’offerta di prodotti finanziari adatti sia a investitori più propensi al rischio sia a quelli che lo erano in minore misura, allargando nel contempo la possibilità di acquisire obbligazioni con elevati tassi di rendimento, che quindi pagavano cedole più alte rispetto ai bond governativi a parità di rating con tripla A.


Conclusione

In sostanza, l'errata valutazione del rating creditizio di questi prodotti ha fatto sì che si innescasse un meccanismo tramite il quale gli investitori possedevano, a loro insaputa, titoli certificati secondo un livello di rischiosità che in realtà non era quello effettivo. Nel momento in cui il mercato immobiliare e i prezzi delle case cominciarono a contrarsi, dunque un crescente numero di mutuatari iniziò a saltare il pagamento delle rate dei mutui, i flussi di cassa che avrebbero dovuto alimentare l'acquisto delle tranche e il pagamento degli interessi ai sottoscrittori di queste ultime venne meno. Le conseguenze della rottura di questo meccanismo furono devastanti. La rete di compravendita tra i vari investitori, che come detto erano per la gran parte le banche stesse, venne a recidersi  proprio a seguito del fallimento del colosso Lehman Brothers - allora quarta potenza bancaria statunitense -, contagiando tutti i partecipanti al "gioco" e trascinando dietro di sé perdite di ricchezza enormi.

Dopo che il mondo intero ha pagato e ancora oggi continua indirettamente a pagare le conseguenze di questa catastrofe finanziaria, le domande che a molti sorgono spontanee sono: abbiamo imparato qualcosa da ciò che è accaduto? Possiamo davvero ritenerci al sicuro e pensare che una crisi del genere non possa più ripresentarsi?




(1) Fannie Mae è il nome comune della Federal National Mortgage Association; Freddie Mac è il nome comune della Federal Home Loan Mortgage Corporation.

(2) Tale termine nasce dall’abitudine che vi era in passato di trattare affari nei dintorni di Wall Street. Spesso, infatti, le trattative avvenivano sul bancone dei bar (over the counter, appunto). La negoziazione si riferiva a titoli che non erano presenti nei circuiti ufficiali di Borsa. Oggi tali tipi di contrattazione avvengono via telefono o in maniera telematica.

Così cinque anni fa cominciava la crisi...

di Roberto Marino 

"Era una notte buia e tempestosa...", questo è l'incipit dell'interminabile romanzo che Snoopy, il simpatico e cinico bracchetto uscito dalla penna - pardon, dalla matita - di Charles Monroe Shulz, prova continuamente a scrivere. Interminabile come questa durissima crisi economico-finanziaria iniziata cinque anni fa.

Quello di cui oggi ricorre un triste anniversario, del quale avremmo fatto volentieri a meno, non è però una notte - seppure altrettanto buio e tempestoso - ma un giorno, passato alla storia (recente) come "black Monday". Era infatti un lunedì il 15 settembre 2008, giorno in cui la Lehman Brothers, una delle più grandi e potenti banche americane d'investimento del mondo, annunciava di avvalersi del Chapter 11 del Bankruptcy Code statunitense; il che significa che dichiarava bancarotta. Quella data ha segnato l'inizio del grande putiferio che ha caratterizzato la fine degli anni Zero e l'inizio dei Dieci di questo XXI secolo e da cui non si riesce ancora ad uscire. Black Monday che ci ricorda un altro "black day" rimasto famoso nella storia, il Martedì nero del 29 ottobre 1929, che diede inizio alla Grande Crisi.

Se i paragoni storici risultano spesso un po' azzardati e grossolani, almeno dal punto di vista delle cause, possono non esserlo per quello che riguarda le conseguenze. Il contesto che caratterizzava il mondo e l'Europa alla fine degli anni Venti e all'inizio dei Trenta del secolo scorso era ben diverso da quello odierno. Non esisteva la globalizzazione dei mercati economici e finanziari come la conosciamo oggi, esisteva invece una forte determinazione nazionale dei singoli Paesi europei. La speculazione finanziaria era meno o diversamente aggressiva e gli Stati Uniti si trovavano ancora in una posizione geopolitica prevalentemente isolazionista, nonostante i forti flussi di capitali indirizzati verso la Germania che avviarono il processo di ricostruzione. 

Il forte protezionismo americano fu sicuramente, dal punto di vista strettamente economico, una delle concause della grande crisi degli anni '30, perché non permise una libera circolazione di merci e un riassorbimento all'esterno delle sovrapproduzioni interne delle stesse. E' anche vero però che l'Europa visse una situazione meno drammatica rispetto a quella americana (ad accezione della Germania che dipendeva fortemente dai capitali americani e che per le gravi difficoltà imboccò quella via dittatoriale che conosciamo bene e che le consentì di diventare una tra le grandi potenze) proprio a fronte di una forte caratterizzazione nazionalistica, che impegnava i governi (spesso dittatoriali) a forti interventi di pianificazione. In America invece la situazione fu di gran lunga più nera e soltanto l'intervento dello stato con il varo del New Deal rappresentò un tentativo di risposta (pubblica) al problema. In ogni caso, ci vollero anni ed una guerra da 50 milioni di morti per la ripresa vera e propria, mentre intanto, proprio negli Stati Uniti, si verificava più o meno quello che accade oggi in Europa e nell'area mediterranea in particolare: crollo dei consumi, chiusura delle aziende, perdita del lavoro, disoccupazione.

Se la forte caratterizzazione nazionale fu uno dei punti di "forza" dell'Europa di ottanta anni fa, oggi è di sicuro un punto di debolezza. La difesa di interessi nazionali, che si regge sulla mancanza di una Unione forte di carattere politico, sulla carenza di regole certe ed uniformi di stampo economico-finanziario, sulle differenze che spesso sono divenute lacune di tipo culturale, ha creato una Europa a due velocità. Un organismo simile non ha potuto e non può dare risposte nette e decise alla crisi, che diventa, per questo ed altri motivi, globale o quasi. 

Sì, perché altri Paesi, i cosiddetti emergenti come la Cina - ma lista è lunga - ad esempio, hanno registrato tendenze opposte rispetto all'Occidente, con punte di crescita anche del 7-8% l'anno di Pil. Ovviamente, la specificità della crescita della Cina è stata caratterizzata dalla capacità di sapersi incuneare nelle debolezze dell'economia europea, in particolare italiana, sfruttando, come sempre accade, la difficoltà di qualcuno per avvantaggiarsene, così come dalla presenza di una tutela legislativa e sociale decisamente inferiore rispetto a quella dei Paesi della vecchia Europa e dell'Italia nello specifico.

E' innegabile però che la crescita ci sia stata, a parte tutte le specifiche del caso, anche e soprattutto per la maggiore flessibilità dei Paesi emergenti di fronte al cambiamento globale. L'Europa, almeno una certa parte, e l'Italia non sono state in grado di adeguarsi, rinunciando ad impostare un programma di riforme legislative ed economiche strutturali in grado di resistere alla crisi e provare a superarla. 

Proprio due giorni fa il commissario dell'Ue, Olli Rehn, ha messo in guardia l'Italia per quanto riguarda la situazione economica, mostrando preoccupazione per l'ulteriore calo del prodotto interno dello 0,2% nel secondo trimestre di quest'anno. E c'è anche il rischio che il rapporto deficit/Pil possa nuovamente superare la soglia critica del 3%, riportandoci nella procedura di infrazione chiusa poche settimane fa. E' innegabile dunque che si avvi un processo di riforme nazionali (ed europee) così come lo stesso Rehn ha invitato a fare, che potrà partire solo quando si deciderà di mettere da parte le beghe politiche di altro genere, si smetterà di temporeggiare e si comincerà a lavorare. Nulla di nuovo vero, ma rimasto ancora lettera morta.

14 settembre 2013

Sabato in Poesia: Estratto di "Beppo, racconto veneziano" (George Gordon Lord Byron)

Beppo è un poemetto satirico in ottave ariostesche (secondo lo schema metrico ABABABCC), attraverso il quale Byron affronta tematiche d'avanguardia, quali la critica polemica al conformismo e perbenismo culturali, religiosi, morali. In questo estratto, il poeta compie un bel ritratto dell'Italia, da cui svetta il paragone con la sua ingrata - ma comunque amata - Inghilterra, che egli dovette abbandonare nel 1816. In particolare, emerge la sua profonda attrazione per la sensuale bellezza femminile, immortalata da sempre da artisti, poeti e scrittori.




Confesso che - nonostante i peccati
degli abitanti - l'Italia è per me 
delizioso soggiorno: amo vedere
il sole d'ogni giorno, amo le vigne
che invece d'esser puntellate a un muro
s'avvolgono sugli alberi e si stendono
dall'una all'altra, cadendo in ghirlande
come decorazioni d'una scena
grande o leggera che la scena attrae
se il primo atto termina in balletti
frammezzo a un paesaggio ricopiato
da vigneti francesi a meridione.

In autunno mi piace verso sera
uscirmene a cavallo senza l'obbligo
di raccomandazioni al cameriere
affinché s'assicuri che legato
m'abbia dietro un mantello, essendo il cielo
non ben completamente rischiarato.
So bene, se mi fermo per la via
dove verdi s'attorcono i sentieri
che sono carri a sbarrarmi il cammino
colmi di rossi grappoli annaspanti:
in Inghilterra sarebbe letame
o fango o qualche simile trasporto.

Mi piace anche pranzare a beccafichi,
vedere il sole che cade, sicuro
che non rinascerà domani avvolto
da un'aurora nebbiosa fra barbagli
deboli come l'occhio illividito
d'un ubriaco, ma con tutto intero
il cielo che il mattino irradierà
stupendo e senza nubi; né per forza
dovrò accendere appena quei due soldi
di candele a luci intermittenti
là dove la fumosa gran caldaia
di Londra va ribollendo e s'esala.

Mi piace questa lingua, questa dolce
bastarda del latino che discende
come un bacio dal labbro d'una donna
e suona come se la si scrivesse
sopra una seta. Le sillabe che
la compongono recano il respiro
del clima ben fortunato del Sud
e si stendono tanto dolcemente
che non un solo accento in lei somiglia
all'aspra, dura, gutturale, barbara
nostra lingua di nordici, che siamo
costretti a vomitare e sputar fuori.

Mi piacciono (scusate la follia)
anche le donne: dalla prosperosa
guancia abbronzata della contadina
con il grande occhio nero aperto a sguardi
esprimenti d'un tratto mille cose,
al ciglio d'alta dama un po' più triste
ma limpido, con umida e violenta
l'occhiata, con il cuore sulle labbra
e l'anima ch'è dietro la pupilla
dolce come il suo clima nel colore
luminoso di sole dei suoi cieli.

O Eva d'una terra che'è rimasta
Paradiso! Bellezza, tu, italiana!
Non ispirasti Raffaello che
morì tra le tue braccia gareggiando
con quanto noi conosciamo del Cielo
o possiamo volere, per quel tanto
che ci è concesso? Benché nel fervore
del canto, che parole mai potranno
ridire la tua luce, se Canova
può creare opere quaggiù?

George Gordon Lord Byron



Versione in inglese

With all its sinful doings, I must say,
That Italy's a pleasant place to me,
Who love to see the Sun shine every day,
And vines (not nail'd to walls) form tree to tree
Festoon'd, much like the back scene of a play,
Or melodrame, wich people flock to see,
When the first act is ended by a dance
In vineyards copied from the south of France.

I like on Autumn evenings to ride out,
Without being forc'd to bid my groom be sure
My cloak is round his middle strapp'd abuot,
Because the skies are not the most secure;
I know too that, if stopp'd upon my route,
Where the green alleys windingly allure,
Reeling wit grapes red waggons choke the way, -
In England 'twould be dung, dust, or a dray.

I also like to dine on becaficas,
To see the Sun set, sure he'll rise to-morrow,
Not through a mistery morning twinkling weak as
A drunken man's dead eye in maudlin sorrow,
But with all Heaven t'himself; that day will break as
Beauteous as cloudless, nor be forc'd to borrow
That sort of farthing candlelight wich glimmers
Where reeking London's smoky cauldorn simmers.

I love the language, that soft bastard Latin,
Which melts like kisses from a female mouth,
And sound as if it should be writ on satin,
With syllables wich breathe of sweet South,
And gentle liquids glinding all so pat in,
That not a single accent seems uncouth,
Like our harsh northern whistling, grunting guttural,
Which we're oblig'd to hiss, and spit, and sputter all.

I like the women too (forgive my folly),
From the rich peasant-cheek of ruddy bronze,
And large black eyes that flash on you a volley
Of rays that say a thousand things at once,
To the high dama's brow, more melancholy,
But clear, and with a wild and liquid glance,
Heart on her lips, and soul within her eyes,
Soft as her clime, and sunny as her skies.

Eve of the land which still Paradise!
Italian beauty! didst thou not inspire
Raphael, who died in thy embrace, and vies
With all we know of Heaven, or can desire,
In what he hath bequeath'd us? - in what guise,
Though flashing from the fervour of the lyre,
Would wordsdescribe thy past and present glow,
While yet Canova can create below?



George Gordon Lord Byron (1788-1824) nacque a Londra il 22 gennaio. Di famiglia nobile, iniziò a comporre versi già dodicenne. Parlamentare dal 1809 presso la Camera Alta di Londra, scrittore e poeta, fu uno dei massimi rappresentanti del romanticismo inglese. Per la sua condotta di vita libertina e per la sua scrittura anticonformista e polemica, fu costretto a lasciare il suo Paese nel 1816. Viaggiò e studiò molto, soprattutto in Italia, e morì combattente in Grecia (a causa di una meningite) dopo aver partecipato attivamente ai moti di liberazione della Regione dalla dominazione ottomana del 1821-1832.
Le sue principali opere sono: Poems on various occasions (1807), English Bards and Scotch Reviewers (1809), Childe Harold's Pilgrimage (1812-18), The Giaour (1813-14), The Bride of Abydos (1813-14), The  Corsair (1813-14), Lara (1813-14), The prisoner of Chillon (1816), Manfredi (1817), Lament of Tasso (1817), Beppo, A Venetian Story (1818), Don Juan (1818-23), Marin FalieroSardanapalo, I due Foscari, Cain, Werner or the Inheritance e Deformed Transformated (1821), The Vision of Judgment (1822), Heaven and Earth - A Mistery (1822).

13 settembre 2013

Perché tanta filosofia?

di Roberto Marino 


La filosofia non è né una cosa del passato, né una cosa per vecchi (con buona pace del Platone della Repubblica) e neppure "quella cosa con la quale o senza la quale si rimane tale e quale", come recita la nota battuta tratta dalla "saggezza" popolare. Questo a giudicare dai dati che hanno registrato, negli ultimi anni, la crescita di presenza al Festivalfilosofia in programma ogni anno a Modena, Carpi e Sassuolo e che si terrà quest'anno dal 13 al 15 settembre. L'evento, ormai più che decennale (esiste dal 2001), ha fatto registrare negli ultimi anni una grande crescita di visitatori. Si è passati dai 150 mila dell'edizione del 2009 ai 175 mila dell'edizione del 2011, per arrivare ai 184 mila dello scorso anno. 

Ma gli eventi ufficiali organizzati non sono i soli termometri per misurare la "fame" di filosofia che c'è ovunque e soprattutto tra i giovani. Sono centinaia, se non migliaia i siti internet, le pagine facebook che riportano citazioni dei grandi pensatori del passato, sia appartenenti alla cultura occidentale, che orientale. Tramite poi la diffusione virale della condivisione, della spunta (il famoso "Like" o in italiano "Mi Piace") queste citazioni sono ormai divenute patrimonio comune della grande maggior parte dei giovani, che sono poi i consumatori principali di social network. 

Certo, non è da escludere che questa tendenza sia divenuta ormai anche un trend, una moda appunto - talvolta criticata dagli acerrimi nemici del conformismo mediatico, così come dagli addetti ai lavori - ma ridurre il fenomeno a semplice avvenimento di costume sarebbe limitativo. In realtà, sotto deve esserci altro. E non si è lontani dal vero se si identifica questo "altro" come il bisogno di trovare risposte, sostegno, empatia tra il mondo e il proprio modo di pensare, la propria sensibilità.

E' una caratteristica culturale della modernità quella di proiettare al di fuori la propria interiorità (pensiamo ai quadri di Van Gogh, tanto per citare un esempio illustre) e la filosofia può in questo modo fornire una risposta ben precisa a ciò che si cerca quando si compie questa operazione. Condividere tutto è divenuto il naturale modo di rapportarsi degli uomini del nostro tempo al mondo che li circonda e i nuovi mezzi di comunicazione istantanea e sociale hanno accentuato e dato uno strumento concreto per poterlo fare. 

Se questa caratteristica culturale e sempre più antropologica ha degli aspetti inquietanti (globalizzazione e omologazione dei modi di pensare e di dire, annullamento degli spazi emotivi privati, banalità della comunicazione), da un'altra prospettiva stimola sempre di più i giovani, in particolare, a scoprire il messaggio affascinante che la filosofia porta con sé e che è poi la condizione più naturale dell'essere umano: conoscere ed utilizzare la conoscenza acquisita. Per scopi personali d'accordo, ma pur sempre di uso e frequentazione con questo mondo si tratta. 

Gli accademici non storcano il naso, commentando altezzosamente che ciò non significa che tutti i consumatori e frequentatori di social network, di frasi celebri, citazioni diventeranno degli studiosi di Platone, Kant, Nietzsche o Heidegger. Nessuno pretende questo e non sarebbe neppure auspicabile. Ciò che conta davvero è che non ci sia il rifiuto aprioristico nei confronti della filosofia e della cultura in genere da parte dei "non professionisti", che potrebbero bollarla come qualcosa di inutile che non dà da mangiare o che costruisce soltanto bei castelli in aria ma inservibili. 

Se Socrate ci ha insegnato davvero qualcosa e se siamo in grado di comprenderlo, ovvero che la filosofia è conoscenza, ricerca e diffusione di questa, allora è necessario superare certe barriere culturali e favorire la sua circolazione con tutti i mezzi a disposizione, magari intervenendo anche a guidare, spiegare, indirizzare. Come dice Francesco De Gregori: «Se Van Gogh avesse cambiato pennello, sarebbe comunque rimasto un grande artista».

08 settembre 2013

8 settembre 1943

di Roberto Marino


Quante cose sono cambiate da quell'8 settembre 1943, eppure quante cose sono rimaste simili! Oggi l'Italia è, sotto molti aspetti, profondamente mutata rispetto a 70 anni fa; ma sarà poi totalmente vero? Cerchiamo di capirlo con una breve analisi. 

Il nostro Paese, fortunatamente, si ritrova ad avere una costituzione democratica solida (anche se a volte interpretata all'occorrenza, a seconda del gruppo di potere o del singolo che deve beneficiare di uno dei suoi principi o articoli). Possiede un parlamento che è l'espressione della volontà popolare e che legifera sulle materie di interesse per la comunità (nonostante spesso accada che la volontà di una certa parte di elettorato sia più valevole di quella di un'altra). Vive una situazione di benessere economico imparagonabile sicuramente alla condizione di povertà di 70 anni or sono (però la crisi economica ruggisce e morde ancora molto e le aziende che chiudono e gli imprenditori che si suicidano sono sempre troppi). Ancora, fa parte di una unione (per adesso soltanto) monetaria di stati europei, realizzata dopo aver imboccato, proprio a partire da quel 1943 di cui l'8 settembre ne sancì l'ufficialità, la strada di un percorso di collaborazione extra statale con le potenze democratiche di allora; percorso che - si spera - si concluderà un giorno con un superamento delle logiche nazionali (le contraddizioni, i giochi di potere, la mancanza di regole veramente uniformi per tutti i Paesi sono però ancora tanti). Infine, l'Italia è ancora immersa in una dimensione in cui manca una progettualità politico-amministrativa e culturale lungimirante, in grado di traghettarla realmente verso una situazione di sviluppo e che possa mettere a frutto le sue potenzialità ancora troppo quiescenti o abbandonate a se stesse. Certamente, la confusione attuale non è storicamente assimilabile a quella del periodo di confronto, ma lo è culturalmente parlando. 

Veniamo ora a ciò che accadde in quell'8 settembre di 70 anni fa. Cinque giorni prima di quella data, ovvero il 3 settembre, il generale e Maresciallo d'Italia, Pietro Badoglio, nominato poco più di un mese prima capo del governo dal re Vittorio Emanuele III, «riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane». Il documento venne firmato a Cassibile, presso Sicuracusa.

La situazione militare, politica e sociale dell'Italia è disastrosa. Il nostro Paese era stato trascinato in una guerra che non è in grado di sopportare né dal punto di vista degli armamenti, né da quello economico e neppure dal punto di vista dell'organizzazione e del morale. Del resto, le campagne di Grecia e Albania del 1940-'41 e quelle nordafricane del '42 lo avevano dimostrato chiaramente. Ma è nel luglio di quel 1943 che la situazione diventa incandescente per il Regno d'Italia. 

Con l'entrata in guerra degli Stati Uniti (7 dicembre 1941) e lo sbarco in Sicilia (10 luglio 1943) la situazione militare e geo-politica comincia lentamente a cambiare. In particolare, questo secondo evento segna definitivamente la nuova piega degli eventi. L'operazione Husky, più famosa come sbarco in Sicilia - deciso durante la Conferenza di Casablanca da americani e inglesi - porta le truppe angloamericane ad occupare la Sicilia prima e l'Italia meridionale in seguito, sfruttando l'Africa settentrionale come ponte per raggiungere l'Europa. 

Il contraccolpo nel governo italiano è enorme. L'occupazione della Sicilia, che accoglie i neo-arrivati come liberatori attesi da tempo, porta immediatamente alla spaccatura del partito fascista e alla messa in discussione della leadership mussoliniana. Il Gran Consiglio del fascismo, l'organo presieduto dai maggiori dirigenti del partito che svolgeva compiti di vigilanza ed epurazione (deliberava sulla formulazione delle liste dei candidati da proporre al corpo elettorale, sugli statuti, ordinamenti e direttive politiche del Partito, esprimeva pareri su questioni di carattere costituzionale in genere, formava la lista di candidati per la nomina a capo del governo, da presentare al re, in caso di vacanza del posto) durante una riunione fiume, convocata d'urgenza e tenuta nella notte tra il 24 e 25 luglio, con la mozione Grandi, votata da 19 favorevoli e 7 contrari, considera decaduto Benito Mussolini. 

Il Gran Consiglio non ha però il potere di estromette Mussolini dalla sua carica di capo del governo, potere, almeno formale, che ancora spetta al re Vittorio Emanuele III. Nella mattinata del 25 luglio infatti, il sovrano convoca il duce e, dopo averlo destituito dell'incarico dichiarando di aver già mosso i primi passi per sostituirlo con il maresciallo Badoglio, lo fa arrestare mentre scende gli scalini di Villa Savoia. 

Il periodo che segue quella data e che arriva fino all'8 settembre è passato alla storia come «i quarantacinque giorni». Sono giorni duri, durissimi. L'Italia passa da un momento all'altro a perdere le proprie figure di riferimento, un quadro politico, ideologico e culturale - seppure inadeguato - che prima aveva. I soldati non sanno da che parte schierarsi e cosa fare, con i fascisti che fanno propaganda di tradimento e che, sostenuti dai tedeschi, organizzano cruente rappresaglie da una parte, gli Alleati che risalgono la penisola dall'altra e il desiderio di tornare a casa, dopo anni di dure campagne militari, da un'altra ancora. 

Alla fine, arriva la data dell'armistizio. L'Italia passa ufficialmente dalla parte degli Alleati, anche se a condizioni piuttosto dure: deve arrendersi senza condizioni, non viene accolta tra gli Alleati e le viene riconosciuto lo status, poco chiaro, di cobelligerante. Questo però è solo l'inizio della dura risalita italiana. Gli anni che seguiranno fino alla conclusione della guerra e alla ricostruzione saranno altrettanto violenti, confusi e difficili da sopportare.

Certo, dire oggi che nulla è cambiato e che, fondamentalmente, ci ritroviamo in condizioni simili a quelli del periodo bellico sarebbe storicamente assurdo e infantile. La Storia cammina avanti e non rimette mai i piedi all'interno delle proprie orme. Altrettanto certo però è che ci aspettano sfide similmente difficili da superare - non soltanto nel futuro, ma anche nell'immediato presente - e che dobbiamo essere all'altezza di chi ci ha preceduto, per riuscire a superarle con la stessa forza d'animo, determinazione e ostinazione, che da sempre caratterizzano il popolo italiano.