Sabato in Poesia: "Vendemmia" di Marino Moretti

Vendemmia di Marino Moretti è una poesia tratta dalla raccolta Sentimento: pensieri, poesie...

Roma capitale d'Italia

Chissà quanti studenti ed ex studenti liceali si sono trovati a tradurre la famosissima frase del De Oratore...

L'origine della crisi finanziaria statunitense

La crisi che ha interessato i mercati finanziari dei paesi maggiormente sviluppati, e che gli esperti...

Così cinque anni fa cominciava la crisi...

"Era una notte buia e tempestosa...", questo è l'incipit dell'interminabile romanzo che Snoopy...

Sabato in Poesia: Estratto di "Beppo, racconto veneziano" (George Gordon Lord Byron)

Beppo è un poemetto satirico in ottave ariostesche (secondo lo schema metrico ABABABCC), attraverso il quale Byron affronta...

07 settembre 2013

Sabato in Poesia: "Arietta settembrina" (Alfonso Gatto)



Ritornerà sul mare
la dolcezza dei venti
a schiuder le acque chiare
nel verde delle correnti.

Al porto, sul veliero
di carrubbe l’estate
imbruna, resta nero
il cane delle sassate.

S’addorme la campagna
di limoni e d’arena
nel canto che si lagna
monotono di pena.

Così prossima al mondo
dei gracili segni,
tu riposi nel fondo
della dolcezza che spegni.

Alfonso Gatto

06 settembre 2013

Classici da (A)mare: "Beppo, racconto veneziano" di George Gordon Byron

di Roberto Marino


Se si potesse tornare indietro nel tempo, se la teoria della reincarnazione fosse vera e ognuno potesse scegliere in quale epoca rivivere dopo la morte, mi piacerebbe tornare nell'Italia del Settecento, magari nella Venezia del grande Carnevale. Questa almeno è la prima sensazione che ho avuto dopo aver finito di leggere il poemetto satirico di Lord Byron, Beppo, racconto veneziano

Mettendo insieme varie esperienze letterarie già vissute da illustri predecessori inglesi (il gusto per il tratteggio paesaggistico di Defoe, il disincanto agrodolce e fiabesco di Swift, l'interesse insistente per il quadro di costume di Fielding e infine l'ironia distaccata e la grande eloquenza di Pope, come fa notare il traduttore e critico Franco Giovanelli) Byron riesce, in sole novantanove strofe di otto versi ciascuna, a mettere su un'operetta gradevolissima e scorrevole da leggere - in linea con l'atmosfera rilassata di questi ultimi scampoli di estate settembrina. 

La storia molto semplice è perfettamente armonizzata con il gusto, i costumi, le vicissitudini, le atmosfere leggere, scanzonate e licenziose della Venezia del Settecento, patria di Casanova e, logicamente, del carnevale. Proprio durante questa festa infatti, la «Né giovane né vecchia» ma sicuramente molto avvenente Laura - dama veneziana rimasta vedeva dopo la scomparsa in mare del marito Beppo, "sostituito" dopo molti anni con un nobile cicisbeo - si accorge di essere insistentemente e passionalmente osservata, durante il ballo in maschera, da un uomo dai costumi mediorientali. La gelosia garbata ma decisa del conte, che accompagna la signora, farà svelare all'uomo misterioso la sua vera identità: altri non è egli che Beppo. 

L'ironia, pacata ma facilmente percepibile, percorre tutta l'opera. Le frecciatine del poeta si rivolgono innanzitutto verso il conformismo benpensante dell'epoca. Fingendosi cristiano pio e uomo moralmente integerrimo, Byron mette in luce le contraddizioni della cultura occidentale, vissuta con spirito puritano. Può dunque togliersi qualche sassolino dalla propria scarpa letteraria, denunciando esplicitamente la presunzione convinta di alcuni scribacchini che si atteggiano a poeti e scrittori e che si dilettano ad introdurre le donne di buona società nel sacro mondo della cultura. Smaschera, infine, attraverso l'iperbole, i luoghi comuni di uomini e donne europei nei confronti di presunti costumi primitivi musulmani, pur non rinunciando ad evidenziare la realtà di alcune usanze arabe piuttosto strane. 

Tema centrale del poemetto è il continuo confronto tra la rigida e fredda cultura nordica - inglese in particolare - e la più sensuale e passionale cultura mediterranea italiana. I punti di divergenza sono diversi a detta del poeta, il quale non si esime dall'elencarli. Ne emerge così un quadro piuttosto lusinghiero del nostro Paese, patria di libertà, arte, bellezza, sensualità, passionalità, vita. Per indole personale, scelte di vita e sensibilità letteraria, Byron infatti è molto più legato ad una visione del mondo libera, che moralmente irreprensibile. Da questo quadro poi non rimane certamente estranea l'incoerenza che si registra nella cultura italiana tra la fede e morale cattoliche da una parte e alcuni liberi costumi dall'altra. Non certo una novità nella Storia.

Da registrare inoltre l'attrazione e la curiosità che il poeta sente per la cultura esotica, araba in particolare. Tematica appartenente con pieno diritto alla letteratura romantica - così come la vita avventurosa e raminga, la spiccata emotività - emerge in più occasioni, a volte marcando la profonda ignoranza e presunzione occidentali, anche se vissute con ingenuità e superficialità. Venezia è il palcoscenico migliore dove mettere in scena l'incontro tra le due diverse culture, proprio per la sua tradizionale vocazione di città di frontiera - come si può ancora notare dalla sua architettura storica. 

Un episodio che, a mio avviso, esemplifica al meglio questo tema - mostrando la grande genialità di Byron - è quello del caffè. Nella semplice scenetta - che passa d'emblée - di Beppo e il conte davanti ad una tazza di caffè, egli è riuscito a concentrare magistralmente (ben due secoli fa!) la necessità del confronto tra culture diverse, di cui ancora oggi si parla tanto e non se ne è ancora venuti a capo. 

Un'ultima annotazione prima di lasciare al piacere della lettura. Oltre che a teatro di  incontro tra culture diverse, Venezia, colta proprio nel periodo del carnevale, serve come ambientazione geografica a cui ancorare la propria ironia di poeta satirico. Il gioco della maschera, il vedo-non vedo, l'allusione che non afferma esplicitamente creano naturalmente quel clima di leggerezza sottilmente acuta, che fa scivolare via il testo senza troppi sospetti.

31 agosto 2013

Sabato in Poesia: "Elegia I, 17" (Elegia 17 tratta dal primo libro di elegie di Sesto Properzio)



E meritatamente, poiché ho potuto abbandonare la mia ragazza,
ora parlo ai solitari alcioni;
né Cassiope come al solito sta per vedere la mia nave,
e tutti i miei voti cadono su questa spiaggia ingrata.
Che anzi, oh Cinzia, anche se sei assente i venti ti sono favorevoli:
guarda come il vento solleva le sue gravi minacce.
E non verrà nessuna sorte a placare la tempesta?
E questa poca sabbia coprirà il mio cadavere?
Tuttavia converti i tuoi fieri insulti in qualcosa di meglio:
ti sia abbastanza la notte di pena che ho passato e l’iniquo mare.
Oppure tu potrai seppellire la mia salma con occhi asciutti,
e sempre con gli occhi asciutti tenere le mie ossa che sono diventate niente strette al tuo seno?
Ah, perisca chiunque per primo preparò le navi e le vele
e fece il suo viaggio contro la volontà del mare!
Non sarebbe stato più leggero vincere i costumi della donna
(sebbene così dura, tuttavia era una ragazza di rara bellezza)
piuttosto che vedere queste spiagge circondate da selve sconosciute
e cercare i desiderati Tindaridi?
Lì a Roma, se per caso i fati avessero seppellito il mio dolore,
e un’ultima pietra stesse in piedi su un amore finalmente deposto,
lei avrebbe donato al mio funerale dei suoi amati capelli,
e avrebbe amorevolmente deposto le mie ossa su un letto di rose;
lei gettando l’ultimo pugno di polvere avrebbe gridato il mio nome
chiedendo che la terra non mi fosse di nessun peso.
Ma voi Nereidi che siete creature marine nate dalla bella Doride,
sciogliete con il vostro felice coro le candide vele;
semmai Amore scivolando tra voi ha toccato le vostre onde,
risparmiate questo compagno di sofferenza offrendogli un approdo sereno.

Sesto Properzio



Versione in latino

Et merito, quotiam potui fugisse puellam,
nunc  ego desertas alloquor alcyonas;
nec mihi Cassiope soluit conuersa carinam,
omniaque ingrato litore uota cadunt.
Quin etiam absenti prosunt tibi, Cynthia, uenti:     
aspice quam saeuas increpat aura minas.
Nullane placatae ueniet fortuna procellae?
haecine parua meum funus harena teget?
tu tamen in melius saeuas conuerte querelas:
sat tibi sit poenae nox et iniqua uada.                        
An poteris siccis mea fata reuolere ocellis,
ossaque nulla tuo nostra tenere sinu?
a pereat quicumque rate set uela parauit
primus et invito gurgite fecit iter!
nonne fuit levius dominae peruincere mores             
(quamuis dura, tamen rara puella fuit)
quam sic ignotis circumdata litora soluis
cernere et optatos quaerere Tyndaridas?
hillic si qua meum sepelissent fata dolorem,
ultimus et posito staret amore lapis,                             
illa meo caros donasset funere crines,
molliter et tenera poneret ossa rosa;
illa meum extremo clamasset puluere nomen
ut mihi non ullo pondere terra foret.
At uos, aequoreae formosa Doride natae,                    
candida felici soluite uela choro;
si quando uestras labens Amor attigit undas,
mansuetis socio parcite litoribus. 

27 agosto 2013

Occhio al Vintage!

di Roberto Marino 


Spensieratezza, leggerezza, relax, divertimento. Sono queste le cose che l'estate porta con sé ed è per questo che tutti la ricercano e la aspettano con desiderio. L'estate di quest'anno però ha portato anche qualcosa in più, una forte tendenza alla riscoperta del passato che, con termine moderno e alla moda, chiamiamo Vintage

In realtà, l'attrazione per ciò che appartiene ad un'altra epoca, lontana almeno vent'anni dalla propria - è questo il significato del termine - non spunta soltanto quest'anno come un fungo dopo qualche giorno di pioggia. Già da qualche tempo infatti si nota, nella nostra cultura, un certo atteggiamento nostalgico nei confronti del retrò, tuttavia ho notato, in questo periodo di vacanza, una certa accentuazione del fenomeno. 

Cover band musicali di artisti o gruppi appartenenti a periodi storici ruggenti; note e parole di canzoni che hanno segnato epoche, formato giovani, diffuso idee e modelli comportamentali; stili di abbigliamento sbarazzini, che ripropongono (in cattività) la voglia di liberazione del corpo e dello spirito da gabbie di stoffa e concettuali, che non possono essere neppure un ricordo pallido nella memoria dei ragazzi d'oggi. Tutto questo abbiamo visto e continuiamo a vedere in giro per le strade, i locali, le discoteche, gli stabilimenti balneari, i mercatini, le fiere, le piazze delle piccole e grandi città italiane. 

Visto il panorama culturale che ci circonda, è necessario almeno un tentativo di riflessione, giusto per capire cosa stia succedendo, che periodo stiamo vivendo. Ho l'impressione che ci troviamo, almeno in Italia, in un'epoca di stanchezza culturale, in cui manca quella forza propulsiva che ha caratterizzato periodi storici precedenti. E non è soltanto una convinzione razionale, ma anche la percezione di qualcosa che si avverte nell'aria. 

Certo, in questi ultimi due decenni abbiamo conosciuto invenzioni, o in alcuni casi diffusioni su larga scala, di beni e servizi decisamente rivoluzionari come internet (utile per mille usi) e i social network che hanno modificato radicalmente il nostro modo di comunicare e di vivere in società. A parte questo però, non sembra che su altri fronti si possano riscontrare cambiamenti rivoluzionari, che consegneranno alla Storia la nostra epoca come un periodo di grande vitalità. 

Eppure l'Italia è stata in passato la patria della modernità. Le grandi scoperte geografiche alla fine del Quattrocento, il Rinascimento nei primi decenni del Cinquecento, il Romanticismo a inizio Ottocento, la passione dei patrioti durante il XIX secolo e ancora la grande letteratura di Foscolo, Manzoni, Leopardi. Per il secolo appena trascorso, basterà citare l'esempio delle grandi rivoluzioni culturali degli anni '60-'70. Nuovi stili musicali, nuova tipologia di abbigliamento, nuovi ideali, valori, aspettative, stili di vita rispetto a quelli di una sola generazione precedente. Spesso d'importazione dai Paesi anglosassoni, ma comunque innovativi per il periodo. Persino nell'ambito socio-politico, in quegli anni, si sono teorizzate concezioni alternative rispetto ai modelli antitetici e unilaterali rappresentati dai regimi totalitari da una parte e dalle democrazie occidentali alle prese con qualche problema di coerenza interna dall'altra. E non era decisamente facile in un clima di trionfo delle ideologie, che si imponevano attraverso un'intensa opera di propaganda e di forte pressione mediatica!

Dopo di ciò ci siamo fermati. E' vero che è sempre molto facile cedere alla tentazione di criticare l'epoca in cui si vive, invece di cogliere ciò che c'è di positivo; soltanto gli uomini più lungimiranti sono in grado di leggere anche i piccoli segnali di cambiamento e trasformali in vere rivoluzioni. E' anche vero però che la situazione non lascia molto ben sperare. Ammetto di essere, probabilmente per indole, attratto dalla nostalgia del passato, ma preferirei avvertire nel mio tempo il profumo della Grande Storia e lasciare ai posteri la fortuna di assaporarne il gusto. Non voglio pensare che l'attuale generazione di uomini non abbia una propria spinta propulsiva in grado di portare in alto. Magari ci troviamo solamente in un periodo di transizione, uno dei tanti cicli storici che apre la strada ad un'epoca migliore; qualcosa di simile a ciò che avviene in economia e in demografia con i cicli di espansione e di contrazione. 

Ciò detto, l'ammirazione per il passato va anche bene - in fondo c'è sempre stata nel corso della storia e spesso ha contribuito all'evoluzione - ciò che bisogna evitare è la caduta nel lassismo, che deriva da un atteggiamento di monumentalizzazione della storia e dei valori delle culture precedenti. E' necessario quindi cogliere lo spirito delle Opere delle generazioni che ci hanno preceduto e metterlo a frutto con coraggio e creatività. Nietzche e Winckelmann, seppure ciascuno a suo modo, lo avevano anticipato rispettivamente un secolo e mezzo e due secoli e mezzo fa. Una bella lezione proveniente dal passato!

24 agosto 2013

Sabato in Poesia: "Gabbiani" (Vincenzo Cardarelli)



Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo.
E come forse anch’essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.

Vincenzo Cardarelli

17 agosto 2013

Sabato in Poesia: "Ballerina" (Corrado Govoni)



L’elegantissima vanessa
Che s’allontana e s’avvicina.

A questo fresco fiore di peonia,
è come una stupenda ballerina
che turbina magicamente
su un tappeto di fuoco e di profumo
sulla punta delle dita, 
e, tra cuscini morbidi di rosa,
cade sfinita.

Eccola, s’avanza.
Tutta vestita di baci,
sulla peonia rossa di garanza;
agita i veli fantasiosi, e danza.

Corrado Govoni

Classici da (A)mare: "Laelius de amicitia" di M. T. Cicerone

di Roberto Marino

L'amicizia, quella autentica, è un sentimento nobilissimo, forse il più bello che possa esserci tra gli uomini. Pari o, in alcuni casi, persino superiore all'amore perché, mentre questo può finire nonostante sia stato vero e profondo (a volte proprio per quello), l'amicizia dura in eterno. Marco Tullio Cicerone infatti, nel libello Laelius de amicitia, ritiene che amore ed amicizia siano sentimenti molto affini sia linguisticamente - entrambi derivano dalla stessa radice am - sia dal punto di vista sostanziale, entrambi presuppongono il «volere bene a colui che si ama, senza pensare ad alcun bisogno da soddisfare, ad alcuna utilità da ricevere in cambio». 

E' sulla base di questa concezione che viene costruito il dialogo - già a partire dal nome - in cui si affronta il problema dell'amicizia, nella sua versione romana, dalla prospettiva di Gaio Lelio, amico di Scipione l'Emiliano e console nel 140 a. C. L'opera è costruita su tre piani temporali diversi e racconta di un dialogo tenutosi nel 129 a. C., - anno della morte di Scipione - tra lo stesso Lelio, ancora triste per la morte del grande amico di una vita, e i suoi due generi Quinto Mucio Scevola e Gaio Fannio. Cicerone però apprende del dialogo tra i tre personaggi nell'88 a. C. quando, giovane apprendista avvocato, viene inviato dal padre nella casa di Scevola, per imparare l'arte retorica e completare i propri studi giuridici. L'anno della stesura dell'opera è invece il 44 a. C. , poco dopo le Idi di marzo e dunque la morte di Cesare.

L'alternanza di piani temporali diversi permette all'autore di affiancare il proprio discorso teorico a validi esempi concreti, tratti dalla vita politica e sociale del proprio tempo, per imbastire così un discorso di carattere politico, culturale, filosofico, sociale, racchiuso dal termine "amicizia". Nella cultura romana infatti il concetto di amicizia è decisamente più vasto che nella nostra. Indica non soltanto un rapporto affettivo tra due persone, ma anche una comune appartenenza politica, culturale e sociale, una visione del mondo similare, valori morali e comportamenti pubblici affini. 

Proprio per questo suo carattere così vasto, l'amicizia a Roma, in particolar modo tra individui appartenenti a classi sociali elevate, era diventata strumento di affermazione personale in ambito politico ed economico. In questo modo però, il valore del mos maiorum - l'antico patrimonio di valori, di cui Cicerone si professa strenuo difensore - era stato tradito e la cultura romana aveva subito un degrado difficilmente sanabile. Degrado che aveva trasformato il nobile sentimento di amicizia in occasione da sfruttare strumentalmente per i propri scopi e che si era concretizzato nell'epoca delle lotte tra Mario e Silla, tra Cesare e Pompeo, tra aristocratici, equites e popolari. 

Dentro questo semplice libello c'è tutta la critica della società del tempo - fatta sapientemente da chi conosce e maneggia molto bene l'arte della parola - così come si trova la nostalgia per quelli che oggi chiameremmo "i bei tempi andati". Bei tempi ormai andati anche per il sopraggiungere a Roma di concezioni culturali provenienti dalla Grecia, che hanno inquinato l'antico costume romano diffondendo i valori della mollezza morale, della cupidigia, del desiderio di beni terreni e del soddisfacimento di piaceri. Ecco dunque che l'analisi del concetto di amicizia non può fare a meno di passare attraverso l'accenno alle concezioni filosofiche greche ormai note a Roma. 

Epicureismo e stoicismo sono le dottrine filosofiche greche più diffuse a Roma. Cicerone le spiega attraverso la cartina di tornasole del concetto di amicizia e, seppure critica la concezione stoica dell'uomo superiore bastante a se stesso e che quindi non necessita dell'amico, alla fine finisce per essere molto più indulgente con la filosofia della Stoà che con l'epicureismo. Quest'ultimo individua nel piacere il principio che guida le azioni degli uomini e di conseguenza l'amicizia viene inquinata da ambizioni personali e desiderio di soddisfare i propri bisogni. 

L'immagine di uomo e di amico che risalta da questa descrizione è quella di un individuo leale, onesto, sincero, non invadente, che rispetta la vita privata degli altri uomini, che non obbliga l'amico a compiere un illecito per essere favorito, che non lo accusa di tradimento qualora egli privilegi la propria moralità rispetto ad una versione depravata del sentimento di amicizia. Tutte virtù queste che appartenevano ai due amici per eccellenza, Lelio e Scipione. 

Infine, Cicerone conclude con un consiglio, espresso da una metafora molto efficace. Mai scegliere un amico lasciandosi prendere da un entusiasmo eccessivo, perché si rischia di compiere scelte frettolose e sbagliate. Esattamente come si fa nelle corse di cavalli, è conveniente puntare su quelli che hanno già dato prova di capacità, piuttosto che su chi non ha ancora dimostrato ai nostri occhi il proprio valore. Un consiglio valido sempre, classico nel senso più antico e profondo del termine, non c'è che dire.