di Roberto Marino
In ogni guerra che si rispetti, dopo la battaglia o le battaglie decisive, c'è sempre la conta di chi ha vinto e chi ha perso. E che questa campagna elettorale sia stata una guerra lo si può tranquillamente affermare, se solo si fa mente locale alle dichiarazioni, agli atteggiamenti, ai comportamenti dei singoli partiti e delle coalizioni. Dichiarazioni violente di sbranamento, di smacchiamento di giaguari da una parte. Attacchi continui con i soliti rifrain anti-comunisti e anti-magistratura, conditi con proposte economiche allettanti ma di dubbia realizzabilità, provenienti dall'altra. Appelli duri al necessario superamento di logiche e arroccamento ideologici, pur rimanendo nell'ambito del riformismo moderato, dal "centro" e desiderio di azzeramento totale di tutta la classe politica così come della sua logica, dal partito borderline par excellence, il Movimento cinque stelle.
Ciò detto, veniamo alla conta e agli scenari che si prospettano proprio sulla base dei risultati. Innanzitutto, il risultato più eclatante è che ci sono due vincitori netti, senza ombre offuscanti né possibilità di fraintendimenti: il Movimento cinque stelle e l'astensionismo. Per quanto riguarda il partito guidato da Beppe Grillo, attestandosi ad oltre il 25% delle preferenze alla Camera e a quasi il 24 al Senato e divenendo così il primo partito italiano nel primo ramo del parlamento, è riuscito ad incarnare il sentimento di rifiuto dei cittadini nei confronti della politica ancora ideologica, chiacchierante, astratta, sofistica e per nulla pragmatica che ci ha accompagnato negli ultimi 20 anni, e a trasformare tutto ciò in voti utili.
Complici anche i buoni risultati che il Movimento sta ottenendo in Sicilia, lo schieramento guidato da Grillo ha dimostrato di saper portare avanti una politica di idee, proposte - alcune accettabili e più che ragionevoli, altre neppure auspicabili - mostrando anche senso di responsabilità pragmatico nel votare singoli provvedimenti coincidenti con le idee ed il programma, nel caso del consiglio regionale siciliano, nel decidere di farlo in ambito nazionale.
Per quanto riguarda l'astensionismo invece, i dati ci dicono che è cresciuto di oltre il 5%, registrando una partecipazione alle urne intorno al 75% degli aventi diritto al voto. Questo dato è allarmante e se sommato al trionfo del Movimento cinque stelle, fotografa una situazione di profonda frustrazione e incredulità da parte dell'elettorato italiano nei confronti della politica tradizionale. Un fatto senza precedenti nella nostra storia repubblicana.
Un altro grande vincitore è Silvio Berlusconi, mentre la stessa cosa non si può dire del Popolo della Libertà. Ancora una volta, questa tornata elettorale si è dimostrata essere un referendum popolare sul carisma, sulla fiducia elettorale e sul potere mediatico di cui gode il leader e presidente di questo partito. Sicuramente - come molti commentatori e analisti politici hanno affermato - i risultati hanno dimostrato che gli elettori non hanno gradito una certa politica di austerità e una certa idea di Europa poco elastica, ma è altrettanto vero che per l'ennesima volta Berlusconi ha saputo catalizzare l'attenzione su di sé e a raggiungere un risultato personale più che soddisfacente. E questo è un dato più che significativo, viste le condizioni di partenza del suo partito - che i sondaggi davano al 12% circa prima del rientro del suo leader - e visti i numerosi temi in ballo.
La stessa vittoria non può essere attribuita (non si parla ovviamente in termini numerici) però al Popolo della Libertà, che dimostra di essere ancora immaturo e non in grado di portare avanti una campagna elettorale soddisfacente in autonomia. Queste valutazioni sono dipendenti ovviamente dal valore dei sondaggi e delle intenzioni di voto, che hanno sicuramente un peso indicativo e tutto da verificare. Sia come sia, in ogni caso non è certo trascurabile il fatto che, con il rientro di Berlusconi, anche i sondaggi pre-elettorali annunciavano un recupero clamoroso delle preferenze dei cittadini nei suoi confronti, che poi si sono trasformate in preferenze in sede di voto effettivo. Tutto ciò fa riflettere sul fatto che la politica accentratrice di un leader molto carismatico all'interno di un partito, se paga nel breve/ medio periodo, crea danni nel futuro per quanto riguarda la propria autonomia. Cosa farà, come si riorganizzerà, quali decisioni strategiche deciderà di prendere questo partito quando si vedrà orfano del suo leader maximo? Certo, queste sono valutazioni non impellenti per il Pdl, ma sicuramente bisognerà fare i conti anche con questa situazione, almeno dal punto di vista interno al partito.
E veniamo ai grandi sconfitti. Sicuramente il Pd perde clamorosamente. Non dal punto di vista numerico, in quanto mantiene la maggioranza relativa dei voti sia alla Camera che al Senato; tuttavia il partito guidato da Bersani non ottiene al Senato il numero di seggi sufficiente per rendere governabile quella parte di parlamento e di conseguenza il Paese. Se si mette a confronto il risultato che le urne ci hanno presentato con la popolarità che il Pd aveva acquistato un paio di mesi fa e con i toni trionfalistici con cui già pregustava la vittoria, a fronte anche di un'esperienza fallimentare del governo di centro-destra sia in ambito nazionale che regionale, si può capire come il partito guidato da Pierluigi Bersani abbia totalmente fallito anche questa volta. Lo spauracchio di Berlusconi ha nuovamente neutralizzato i "buoni propositi" e tutto l'entusiasmo e l'esaltazione che il Partito democratico aveva all'indomani delle primarie di coalizione.
L'altro sconfitto appare Monti. Dico appare, perché in fondo quella di Monti è una sconfitta onorevole. Come lo stesso premier dimissionario ha ammesso ieri sera - "Era stato da alcuni ipotizzato un risultato leggermente superiore, ma devo dire che io sono molto soddisfatto alla luce di alcuni elementi: anzitutto i tempi. In 50 giorni abbiamo avuto oltre 3 milioni di elettori" - e come sostiene Aldo Cazzullo in un articolo sul Corriere della Sera, che parla di risultato non disprezzabile, non si può non ammettere che, date le circostanze, Monti ha sostanzialmente tenuto, pur deludendo le aspettative dei sondaggi. Il premier infatti, pur uscendo da un'esperienza di governo austero costantemente esposta agli attacchi di Lega e Pdl così come a quelli della gente comune, pur organizzando un partito in poco più di un mese e mezzo di campagna elettorale, pur non avendo una solida struttura storica e una cultura ideologica alle spalle (Fini e Casini sono stati sostanzialmente ininfluenti) è riuscito a raggiungere il 10% delle preferenze alla Camera con un apporto del 8% circa del partito Con Monti per l'Italia in coalizione e il 9% al Senato.
All'interno dello schieramento centrista, gli altri due perdenti clamorosi sono Futuro e Libertà di Fini (che non entra in parlamento) e l'Udc di Casini che, seppure riesce nell'ardua impresa di restare, ottiene pessimi risultati (1,78%).
Infine, anche il partito di Ingroia subisce un battesimo decisamente fallimentare, decretando il fallimento della logica della magistratura prestata alla politica, come anche l'esclusione di Antonio di Pietro dimostra.
Che cosa accadrà adesso? Il problema più impellente da risolvere sarà quello di adoperarsi per formare una maggioranza parlamentare ed un governo che possano avere un minimo di stabilità, ma questo risulta molto arduo dal momento che manca una maggioranza tecnica di seggi al Senato.
Questa legge elettorale, pensata per ridare vigore ad un sistema bipolare in affanno già da qualche anno, la delusione degli elettori nei confronti della vecchia politica, la ricchezza e l'articolazione dell'offerta politica hanno contribuito alla situazione di instabilità e di palude paralizzante che si è creata. Creare una maggioranza parlamentare ed un governo senza avere i numeri al Senato - al centro-sinistra, partito di maggioranza relativa, vengono assegnati 119 seggi a fronte di 117 del centro-destra, 54 del Movimento cinque stelle e di 18 della coalizione Con Monti per l'Italia - risulta impossibile. Allo stesso modo, viste le diversità programmatiche e le abissità valoriali, risulta difficilissimo trovare una convergenza tra centro-sinistra e centro-destra, allo scopo di formare una maggioranza di larghe intese; così come risulta impossibile un'alleanza tra centro-sinistra e Movimento cinque stelle, a giudicare dalle dichiarazioni del leader Grillo. I problemi non si pongono alla Camera, dove il partito vincente - la coalizione di centro-sinistra - ha usufruito del premio di maggioranza del 55% dei seggi, pur avendo superato il centro-destra di solo 0,4% dei voti. Magie del porcellum!
Cosa fare dunque? Staremo a vedere cosa faranno i partiti. Una cosa è certa: la politica tradizionale non è stata in grado, nel tempo né tanto meno nella campagna elettorale, di dare quelle risposte ai problemi che i cittadini invece aspettavano. A questo punto - e ci riferiamo al medio periodo - i partiti dovrebbero non tanto arrendersi - come dice e auspica Grillo - quanto riformarsi profondamente dalle fondamenta, presentando una immagine ed una essenza che innanzitutto coincidano e che si configurino come credibili, realistiche, pragmatiche, capaci, austere, in grado di dire addio ai propri privilegi e al proprio status socio-economico protetto e surreale. Il movimento di Grillo lo ha fatto e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
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