di Roberto Marino
Non si capisce perché l'Italia sia un Paese a forte trazione conservatrice. Sembra quasi che si ostini volutamente a rimanere legata al passato, come se questo fosse realmente fonte di certezza, di stabilità, di funzionalità. Eppure la situazione che si sta verificando oggi in Italia dimostra che i vecchi schemi di pensiero e comportamento non sono stati risolutivi e non premiano. E dal punto di vista economico e dal punto di vista del rapporto con i cittadini/elettori.
Certo, una tendenza analitica di stampo storicista indurrebbe, se non obbligherebbe, a rintracciare la fonte del fenomeno nel fatto che l'Italia è stata la patria del trasformismo e del clientelismo, che l'Italia ha scelto per 40 anni di essere rappresentata e governata dalla Democrazia cristiana, che abbiamo l'influenza di una cultura intrisa di religione, etc., ma tutto ciò non spiega fino in fondo perché ci si tappi le orecchie e gli occhi di fronte alla voglia urlata di novità. E' una questione di opportunità, di pragmatismo, di necessità, di sopravvivenza.
In un'intervista al Corriere della Sera di una settimana fa, Massimo D'Alema avrebbe proposto una strada, a suo avviso praticabile e utile, per risolvere il problema dell'impasse in cui si trovano le istituzioni, la politica e di conseguenza l'intero Paese. Secondo l'ex onorevole ed ex Presidente del Consiglio, la soluzione sarebbe coinvolgere le due forze politiche maggioritarie - escluso il Pd ovviamente - affidando loro le due maggiori cariche istituzionali dello Stato - dopo quella della Presidenza della Repubblica - ovvero Presidenza del Senato e della Camera. Ora, se una soluzione del genere potrebbe "andar bene" per un partito politico storico come il Pdl - anche se forse non andrebbe bene per l'Italia - non si potrebbe dire la stessa cosa per un movimento come quello dei Cinque stelle, che del rifiuto degli inciuci, del diniego della politica delle alleanze e degli accordi-contentino ha fatto la sua bandiera ed il suo successo. Ci troviamo di fronte qualcosa che va ben oltre il piatto di lenticchie con cui Esaù scambiò la sua primogenitura.
Dall'altra parte invece troviamo il Pdl che disperatamente sta tentando - nel senso letterale di sedurre - il Pd a stipulare un'alleanza, che ha il sapore di nazional-strategia, evidentemente per non essere tagliato fuori dagli appuntamenti importanti che la politica dovrà affrontare nei prossimi giorni. Il più importante fra tutti: l'elezione del nuovo Presidente della Repubblica. E' vero infatti che manca da molto tempo un Capo dello Stato politicamente vicino ad ambienti di centro-destra e avere un presidente che, pur mantenendo la consueta onorevole terzietà che una figura così importante deve avere, può essere risolutivo in determinate situazioni di difficoltà, di certo non dispiace. Inoltre, influire sulla scelta delle massime cariche dello stato (se non conquistarle) - e ci si riferisce alle presidenze delle Camere - è sicuramente una prova di forza importante, anche e soprattutto in un momento di crisi come questo.
Ora, è vero che le larghe maggioranze o i governissimi o i governi di larghe intese, come si preferisce chiamarli, sono la soluzione alle situazioni di ingovernabilità di un Paese - del resto anche negli altri Paesi d'Europa (vedi Germania) si stipulano simili accordi in situazioni di difficoltà - tuttavia in Italia operazioni del genere attirano su di sé sempre una cattiva fama. Forse perché la politica italiana è stata dissanguata da accordi e accordini di vario genere, che non hanno dimostrato grande capacità, o meglio volontà, risolutiva di problemi importanti e urgenti. Forse perché una certa realpolitik delle alleanze post voto ha più il sapore di uno scouting, che tradotto dal politichese significa avanscoperta alla ricerca di più di qualche insoddisfatto del suo vecchio partito che, se ben corteggiato, potrebbe diventare un dissidente che cambia casacca.
Quello che sembra più ragionevole fare allora è trovare accordi (veri e non strategici) pragmatici di poche ma immediatamente operative idee che risolvano problemi urgenti, piuttosto che cercare di riassorbire con i metodi della politica delle lenticchie gli ematomi causati dalle consultazioni elettorali appena terminate. Ciò significa: modifica della legge elettorale; abolizione dei finanziamenti pubblici ai partiti con rinuncia immediata di quelli previsti in questa tornata; riduzione drastica dei costi della politica (riduzione del numero dei parlamentari e dei compensi); abolizione o accorpamento sostanzioso di enti locali dispendiosi e utilizzo del denaro ricavato per abbassare la pressione fiscale sul lavoro e finanziare le imprese. Di fronte a proposte di questo genere, anche le diffidenze più ostinate dovrebbero dissiparsi, il buon senso dovrebbe fare il resto.
Questa la politica più immediata. Ciò che conta adesso è uscire dallo stallo. Per quanto riguarda il futuro, si aspetta il momento più propizio per le prossime consultazioni elettorali.
La soluzione di un governo che traghetti l'Italia alle prossime elezioni è quella auspicabile, anzi necessaria. A legge elettorale opportunamente modificata si dovrà poi procedere allo scioglimento di entrambe le Camere, senza contemplare nemmeno per un attimo l'idea di riandare alle urne solo per eleggere i senatori. A mio parere questa via, sebbene costituzionalmente praticabile, sarebbe quella meno indicata da seguire, se non altro per il semplice fatto che ci esporremmo nuovamente al rischio concreto di avere due Camere con maggioranze diverse, con l'ovvia conseguenza di nuova impasse. Fatta questa premessa, tra i punti che indichi come prioritari per l'esecutivo che da qui a poco si formerà (e che mi auguro sia capeggiato da una figura fuori dagli schemi politici anche se magari non tecnica), quella che più difficilmente potrà concretizzarsi è l'ultima. L'abbassamento del costo del lavoro dovrebbe essere riscritto a più mani al fine di ottenere una soluzione che inglobi e metta d'accordo le diverse ricette proposte da ciascuna parti, ognuna delle quali ha in testa un proprio modo di far fronte ai mancati introiti che ne deriverebbero; per di più gli effetti economici risulterebbero evidenti solo in un lungo periodo. Il tema dovrà obbligatoriamente essere ripreso, ma solo dal governo che succederà al prossimo.
RispondiEliminaIl finanziamento alle imprese, che ahimè non hanno accesso al credito, è invece la priorità delle priorità. Come diversi esperti continuano a ripetere da più tempo, la politica creditizia è senza alcun dubbio lo strumento di più rapida attivazione e in grado di raccogliere maggior consenso. Le Pmi che vantano dei crediti nei confronti della Pa ormai sono troppe, e i 50 miliardi che servirebbero per ripagarle potrebbero ridare fiato all'economia reale. Ma dove trovare questi soldi? La soluzione da taluni proposta indicherebbe la via dell'emissione di debito: in altre parole affacciarsi sui mercati e chiedere loro il prestito di cui si necessita. Così facendo, invece che debitore verso le imprese, lo Stato risulterebbe debitore (a medio/lungo termine) verso chi acquista titoli. Dal punto di vista puramente contabile, secondo alcune stime, questo genererebbe un'accelerata del rapporto debito/Pil del 3,6%, che a prima vista potrebbe portare gli investitori a richiedere tassi più elevati. Tuttavia, questo tipo di scenario è già ampiamente noto e di fatto scontato nelle quotazioni dei titoli azionari. Senza comunque scendere nei dettagli tecnici, ciò che è importante sottolineare è che un modo per ritornare immediatamente a riprendere fiato esiste, è concreto e potrebbe essere messo in moto addirittura dall'esecutivo uscente, così da far guadagnare tempo a chi sta per insediarsi.
Tutti gli altri punti sono importantissimi e spero trovino appoggio unanime fra le forze politiche, senza resistenze o giochi delle tre carte che prendono in giro un popolo bisognoso di ritrovare il benessere perso. Non devono perdere altro tempo.
Una precisazione in merito a quanto avevo scritto nella risposta precedente (fonte Il Sole 24 Ore):
RispondiElimina- i debiti commerciali pubblici verso le imprese private ammontavano nel 2011 a 71 miliardi di euro (stime Banca d'Italia);
- se si procedesse alla liquidazione di 48 di questi 71 miliardi (i circa 50 mld che intendevo nel precedente commento), allora si genererebbero in tre anni 10,2 miliardi di euro di investimenti aggiuntivi delle imprese (stime Confindustria).
Comunque, al di là di quanto riassunto nelle cifre, il punto è che questa soluzione consentirebbe alle imprese ora creditrici di ripianare i debiti che a loro volta hanno nei confronti dei loro fornitori; in aggiunta a ciò si consentirebbe di porre un freno deciso al pericolo di ricadere nella stretta creditizia per la terza volta dopo quelle del 2007-2009 e 2011-2012: in altre parole, le banche che ora chiudono i rubinetti dei prestiti alle aziende sarebbero nuovamente disposte a riaprirli perché vedrebbero migliorare i rating di queste ultime, dunque la possibilità di veder tornare indietro a scadenza, "sani e salvi", soldi (e interessi).
Se ora, oltre ai tanti esperti, anche il Capo dello Stato spinge verso questa iniezione di liquidità, vuol dire che ci si deve muovere e al più presto.
Sono assolutamente d'accordo con te, Tommaso.
RispondiEliminaE' assolutamente necessario intervenire in questa direzione, così come in quella della modifica della legge elettorale. Credo siano le due priorità che questo nuovo governo, con la collaborazione di tutti, dovrà affrontare, prima di terminare il suo breve mandato. Non credo che quella che verrà potrà essere la legislatura costituente che tutti si aspettavano; credo però che potrà creare i presupposti per quel compito ben più complesso. I modi per trovare denaro sufficiente a sbloccare i pagamenti verso le imprese sono molti: oltre a quelli indicati nell'articolo, si dovrebbero aggiungere immediati tagli agli altissimi compensi degli alti dirigenti della PA, vendita di consistenti pacchetti di asset pubblici (mobiliari e immobiliari), inutilizzati dallo Stato o inutili.