di Giovanna Cafaro e Roberto Marino
Intervistare il vincitore del prestigioso Premio Campiello, o meglio avere la possibilità di dialogare con lui, non è un evento che capita tutti i giorni. Per la difficoltà nel reperimento dell'ultra impegnato scrittore, sempre occupato nella promozione e nella presentazione della propria opera e della propria arte. Per la difficoltà nel riuscire a superare il muro di sostenitori, fan, ammiratori - accaniti e famelici nel tentativo di portare a casa il loro trofeo autografico o fotografico - che sempre si trova durante gli incontri col pubblico. Per la ritrosia, spesso presente nei personaggi noti - che si atteggiano sempre più similmente a rockstar snob, autocompiaciute e ribelli - nei confronti di ciò che non frutta un rientro di immagine all'altezza del proprio valore e della propria fama.
Nel caso in cui invece si incontri uno scrittore come Carmine Abate, tutto questo non avviene. Perché è calabrese; un calabrese doc che ha mantenuto intatti i valori di generosità e disponibilità, tipici della cultura degli abitanti di quella, di questa regione. Perché trova sempre un attimo di tempo per tutti, anche se la somma di tutti quegli attimi si trasforma in un tempo decisamente lungo.
Quando al termine di un incontro di "passeggiate letterarie" all'interno dei suoi due ultimi libri La collina del vento (2012) e Il bacio del pane (2013), organizzato dal Lions Club in una qualunque cittadina, magari calabrese - Cirò Marina in provincia di Crotone, tanto per citare un nome - gli si chiede quale valore aggiunto abbia la cultura calabrese in un mondo globalizzato, con il rischio che questa possa diventare un racconto anacronistico del passato, dal momento che parla di valori antichi, Abate risponde con disinvoltura. «I valori non sono antichi ma
sono universali, la cultura calabrese ne è piena. Ad esempio, quello che più mi
sta a cuore è la dignità. I valori fanno parte della nostra storia, vanno
modernizzati e trasmessi ai giovani di oggi attraverso il recupero della
memoria». Questa, non è mai nostalgica, anzi come una bussola permette di «orientarci
nel presente» con uno sguardo rivolto al futuro.
I romanzi di Abate sono caratterizzati da una scrittura parlata - così direbbe Roland Barthes - in grado di coinvolgere in maniera sinestetica i sensi del lettore e di catapultarlo all’interno di un mondo fatto di riti antichissimi e valori che si tramandano di padre in figlio. Ecco perché i suoi eroi sono spesso adolescenti: ne è «attratto per lo sguardo» - spiega - «uno sguardo sul mondo» come sinonimo di «un occhio che lo illumina», che si genera e si «reinventa nel momento in cui lo si guarda», insomma uno sguardo creativo.
La suggestiva occasione dell’incontro sembra aderire perfettamente con lo spirito del suo protagonista, fatta di atmosfere evocative che riportano alla mente viaggi culturali sospesi a metà tra il reale e la fantasia. E nell’aria vibrano i versi letterari accompagnati da una magistrale chitarra battente suonata dal maestro Cataldo Perri. La curiosità di noi spettatori si arresta sul modo in cui la musica enfatizza una certa produzione letteraria.
In una atmosfera così densa, il pensiero si volge a ciò che ha scritto lo storico medievista Augusto Placanica. Nel libro Storia della Calabria, in cui si compie una disanima dell'evoluzione economico-sociale della regione, lo studioso pone l’accento sul carattere lugubre, triste dei canti popolari calabresi che fanno parte della letteratura di questa terra e che racchiudono la frustrazione, la sofferenza e il dolore per una condizione drammatica di povertà e sfruttamento lunga molti secoli. Lo scrittore arbëresh dimostra di conoscere, ad esempio, i canti funebri tradizionali, tanto da averli recuperati e utilizzati nelle sue opere: in La collina del vento (2012), dove è presente infatti il lamento della nonna «che canta il marito» per la perdita, il dolore e i soprusi subiti nel corso della vita; in Il ballo tondo (2000), strutturato sotto forma di Rapsodia. Naturalmente, continua Abate, «ciò a cui faceva riferimento Placanica ha a che fare con la Calabria tradizionale: le persone che scrivevano soffrivano non solo per le pene d’amore, ma soprattutto fisicamente. Non dimentichiamo che nel Mezzogiorno, fino alla Seconda guerra mondiale, si viveva come nel Medioevo. Con l’inizio del processo migratorio le cose sono cambiate: crollano il latifondo e conseguentemente i rapporti di tipo feudale. Oggigiorno, la situazione economica e sociale si è completamente trasformata, perciò come scrittore del presente sento la necessità di narrare e attualizzare questi temi».
Il viaggio rappresenta la rottura del singolo soggetto con il suo orizzonte spaziale e culturale, insieme alla fondazione dei presupposti per la nuova vita. Come molti calabresi, lo stesso Abate è stato costretto ad abbandonare il suo paesello, la sua regione, con tutte le conseguenze che questo ha comportato: quell’allontanamento dalla propria casa di affetti che l’antropologo Ernesto De Martino ha definito crisi della presenza, ossia lo spaesamento iniziale che si verifica quando spariscono i propri riferimenti domestici. La forza dello scrittore risiede nella capacità di «vivere per addizione», esplorando se stessi attraverso le altre culture. Il suggerimento che rivolge ai giovani è di «avere la possibilità di rimanere per provare a cambiare le cose dall’interno», augurandosi che essi «non partano o che comunque possano avere la possibilità tra scegliere se restare o andare, senza alcun vincolo od obbligo che costringa a cercar fortuna fuori»: questa «è una terra che andrebbe guarita nelle ferite e goduta nella sua bellezza». È quel giro lungo che permette a ognuno di noi d’esserci nel mondo.
I romanzi di Abate sono caratterizzati da una scrittura parlata - così direbbe Roland Barthes - in grado di coinvolgere in maniera sinestetica i sensi del lettore e di catapultarlo all’interno di un mondo fatto di riti antichissimi e valori che si tramandano di padre in figlio. Ecco perché i suoi eroi sono spesso adolescenti: ne è «attratto per lo sguardo» - spiega - «uno sguardo sul mondo» come sinonimo di «un occhio che lo illumina», che si genera e si «reinventa nel momento in cui lo si guarda», insomma uno sguardo creativo.
La suggestiva occasione dell’incontro sembra aderire perfettamente con lo spirito del suo protagonista, fatta di atmosfere evocative che riportano alla mente viaggi culturali sospesi a metà tra il reale e la fantasia. E nell’aria vibrano i versi letterari accompagnati da una magistrale chitarra battente suonata dal maestro Cataldo Perri. La curiosità di noi spettatori si arresta sul modo in cui la musica enfatizza una certa produzione letteraria.
In una atmosfera così densa, il pensiero si volge a ciò che ha scritto lo storico medievista Augusto Placanica. Nel libro Storia della Calabria, in cui si compie una disanima dell'evoluzione economico-sociale della regione, lo studioso pone l’accento sul carattere lugubre, triste dei canti popolari calabresi che fanno parte della letteratura di questa terra e che racchiudono la frustrazione, la sofferenza e il dolore per una condizione drammatica di povertà e sfruttamento lunga molti secoli. Lo scrittore arbëresh dimostra di conoscere, ad esempio, i canti funebri tradizionali, tanto da averli recuperati e utilizzati nelle sue opere: in La collina del vento (2012), dove è presente infatti il lamento della nonna «che canta il marito» per la perdita, il dolore e i soprusi subiti nel corso della vita; in Il ballo tondo (2000), strutturato sotto forma di Rapsodia. Naturalmente, continua Abate, «ciò a cui faceva riferimento Placanica ha a che fare con la Calabria tradizionale: le persone che scrivevano soffrivano non solo per le pene d’amore, ma soprattutto fisicamente. Non dimentichiamo che nel Mezzogiorno, fino alla Seconda guerra mondiale, si viveva come nel Medioevo. Con l’inizio del processo migratorio le cose sono cambiate: crollano il latifondo e conseguentemente i rapporti di tipo feudale. Oggigiorno, la situazione economica e sociale si è completamente trasformata, perciò come scrittore del presente sento la necessità di narrare e attualizzare questi temi».
Il viaggio rappresenta la rottura del singolo soggetto con il suo orizzonte spaziale e culturale, insieme alla fondazione dei presupposti per la nuova vita. Come molti calabresi, lo stesso Abate è stato costretto ad abbandonare il suo paesello, la sua regione, con tutte le conseguenze che questo ha comportato: quell’allontanamento dalla propria casa di affetti che l’antropologo Ernesto De Martino ha definito crisi della presenza, ossia lo spaesamento iniziale che si verifica quando spariscono i propri riferimenti domestici. La forza dello scrittore risiede nella capacità di «vivere per addizione», esplorando se stessi attraverso le altre culture. Il suggerimento che rivolge ai giovani è di «avere la possibilità di rimanere per provare a cambiare le cose dall’interno», augurandosi che essi «non partano o che comunque possano avere la possibilità tra scegliere se restare o andare, senza alcun vincolo od obbligo che costringa a cercar fortuna fuori»: questa «è una terra che andrebbe guarita nelle ferite e goduta nella sua bellezza». È quel giro lungo che permette a ognuno di noi d’esserci nel mondo.
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