di Roberto Marino
Oggi è il 9 maggio e in questo giorno di 35 anni fa moriva Peppino Impastato, giornalista, conduttore radiofonico, attivista e politico italiano, ucciso dalla mafia a soli 30 anni. La sua storia è ormai diventata celeberrima, ed ha raggiunto ed entusiasmato il grande pubblico anche grazie alla diffusione avvenuta attraverso la ricostruzione compiuta dal regista Marco Tullio Giordana nel film I cento passi, così come grazie alla canzone I cento passi, incisa dai Modena City Ramblers in corrispondenza al film.
La storia del giovane Peppino ha commosso e spinto l'Italia a reagire, tanto che negli anni sono state portate avanti numerose iniziative. Nel 2009 è stata posta una targa commemorativa nella biblioteca comunale della cittadina di Ponteranica, suscitando anche molte polemiche in area leghista, che portarono alcuni ragazzi di Bergamo ad inaugurare una biblioteca popolare a Peppino. Nel maggio di tre anni fa, al termine della consueta cerimonia commemorativa in ricordo del giovane Impastato, ci fu la simbolica consegna delle chiavi di casa del boss di Cinisi, Gaetano Badalamenti, zio di Peppino, al sindaco del piccolo paese, il quale le consegnò a sua volta le all'Associazione Culturale Peppino Impastato. Ancora, nel 2012 la casa di Peppino viene riconosciuta bene culturale come "testimonianza della storia collettiva e per la sua valenza simbolica di esempio di civiltà e di lotta alla mafia".
Tutte azioni celebrative, doverose, ovviamente necessarie - non soltanto in senso istituzionale, ma anche morale - e forse, nella maggior parte dei casi, anche sentite. Ma appunto soltanto manifestazioni di ricordo. Questo non significa che non debbano essere fatte; è ovvio che una comunità, uno Stato, una società debbano rispondere anche in maniera simbolica e culturale. Quello che purtroppo non si riesce ad evitare in situazioni come queste è la trasformazione in miti dei personaggi che si sono impegnati concretamente nella lotta alla mafia.
La mitizzazione è un fenomeno abbastanza articolato, che coinvolge diverse realtà. Nel mondo iper-comunicativo in cui viviamo, i media sono direttamente coinvolti in questa operazione per cui, grazie alla rapida diffusione di notizie e all'accurato lavoro di manipolazione (che non significa modifica del contenuto di un evento o una notizia, bensì lavoro sul suo contorno in termini di presentazione e di impatto emotivo) il processo di divinizzazione di un fatto, dell'immagine di un personaggio si compie.
La mitizzazione di un personaggio rischia però paradossalmente di offuscare il messaggio che egli ha voluto mandare, portare avanti, dimostrare con il suo esempio. Infatti, se da una parte il mito porta all'ammirazione, alla dichiarazione di lode nei suoi confronti e in qualche caso anche all'emulazione, dall'altra parte (ed è quella quantitativamente più numerosa e dunque più rilevante) il mito spinge in una direzione di deresponsabilizzazione, di assoluzione morale. Il mito viene ammirato, esaltato, venerato ma, proprio perché considerato un eroe, un personaggio dalle doti e qualità superiori rispetto agli altri uomini, viene relegato in una sfera quasi ultramondana e il suo esempio per nulla imitabile dagli uomini cosiddetti normali, comuni.
Lo sapeva bene Giovanni Falcone che non ha mai considerato se stesso un eroe e che da eroe non voleva morire né come eroe essere ricordato. Egli diceva - parlando dell'impegno che lo Stato come organismo istituzionale deve mostrare nella lotta alla mafia - che «Quando esistono degli organismi collettivi, quando la lotta non è concentrata o simboleggiata da una persona sola, allora la mafia ci pensa due volte prima di uccidere». E' questo il senso dell'impegno che uomini socialmente e culturalmente attivi come Giuseppe Impastato, e normali servitori dello Stato come Falcone, Borsellino, Rocco Chinnici, il generale Dalla Chiesa, che ricorderemo ed osanneremo retoricamente fra qualche settimana o qualche mese, hanno profuso nella lotta alla mafia, pagando con la vita la loro "impudenza".
Uomini normali, che avevano un coraggio normale che tutti, nel piccolo o nel grande dovremmo avere. Coraggio che ci sembra eroico soltanto se visto in controluce rispetto alla nostra incapacità di comprendere il significato profondo del potere della criminalità mafiosa e gli effetti devastanti che ha sulla nostra società. Siamo noi uomini "comuni" infatti ad avere un senso di collettività al di sotto della media, che non ci permette di sentire il puzzo insopportabile della criminalità e a non vedere lo scempio che ha creato. Ricordiamoci di tutto questo oggi, ricordiamocene il 23 maggio, il 19 luglio, il 29 luglio, il 3 settembre e così ogni giorno dell'anno. Ricordiamocene e riflettiamo.
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