di Roberto Marino
Il conflitto generazionale padre contro figli era stato già analizzato da Sofocle nella tragedia Edipo re. Nell'opera si profila per la prima volta uno scontro, seppure ancora inconsapevole, tra le generazioni a confronto. Nella tragedia greca però, la conflittualità è appena accennata, latente, e si mostra come l'esito violento e improvviso, quasi casuale, di uno scontro tra generazioni successive, modi di vedere il mondo e reagirvi diversi, piuttosto che tra padre e figlio.
Il tema viene ripreso, sotto una veste ancora più latente, da William Shakespeare nell'Amleto. La tragedia analizza la figura di un giovane dubbioso, infelice, tormentato, che insegue a tal punto il mito del padre da identificarvisi persino nel nome. Amleto il nome del padre, Amleto il nome del figlio. Padre che non appare mai nella tragedia, se non nei sogni, nei ricordi, nei tormenti interiori del giovane principe di Danimarca.
La cultura europea ha quindi familiarizzato da molto tempo con la questione dello scontro generazionale tra padre e figli, tanto che nell'ultimo quarto del XIX secolo Fëdor Dostoevskji affronta nuovamente la questione, sempre dal punto di vista letterario, nel romanzo I fratelli Karamazov. Nell'opera, tutti i figli del vecchio Fëdor Pavlovic condividono l'idea che la figura del padre sia, per motivi diversi a seconda dei figli, ingombrante, eccessiva, esuberante e che, come tale, vada tolta di mezzo. Dostoevskji compie però un passo ulteriore rispetto ai suoi predecessori che si sono occupati della questione. Egli affronta il problema in termini di consapevolezza individuale. I figli del vecchio Karamazov sanno di tramare e desiderare la morte del padre e non esitano a confessarselo vicendevolmente, fino a che il figlio minore Smerdjakov non compie effettifamente il gesto.
Le stesse considerazioni saranno fatte da Sigmund Freud, ma con un taglio decisamente più scientifico, negli ultimi anni del XIX secolo e nei primi del XX. Oltre alla teorizzazione del complesso di Edipo, il medico austriaco dimostra nell'opera Totem e tabù del 1913 come l'uccisione del padre sia un gesto rituale necessario a dare il via alla civiltà nelle società primitive. Il padre infatti rappresenta tutto quell'insieme di divieti psicologici, morali, culturali che la società delle origini porta con sé e la sua eliminazione fisica, che poi viene sublimata in termini psicologici, permette un processo di maturazione ai membri più giovani delle società primitive. Questi infatti sperimentano il momento della liberazione da un'oppressione esterna e, successivamente, prendono coscienza della necessità di quel gesto ma soprattutto di quella figura superiore, interiorizzandola e dando il via alla coscienza morale e alle leggi civili che impediscano il ripetersi del gesto e favoriscano la nascita di una società regolamentata.
Prima però di trasformare queste teorie in realtà comprovata, acqua sotto i ponti ne dovrà ancora passare. E' soltanto negli anni Sessanta del Novecento - in virtù della rivoluzione culturale e di costume di quegli anni - che si manifesta, in maniera massiccia e diffusa pressoché in tutti gli strati sociali, il fenomeno della contestazione dei vecchi "matusa". Tra i motivi della grande contestazione sessantottina, oltre alla ribellione nei confronti di un mondo che non offriva, dal punto vista della loro percezione, più nulla ai giovani, c'era anche la denuncia, da parte degli stessi, dell'incapacità dei genitori di comprendere i loro sogni, i loro gusti, il loro modo di vedere il mondo, le loro aspettative. Lo scontro era però su un piano ancora valoriale, esistenziale, culturale nel senso proprio del termine.
Oggi la dialettica - in modo molto accentuato in Italia - si riapre, ma più da un punto di vista economico, professionale, materiale e solo in secondo luogo culturale. I giovani che non trovano lavoro stanno cominciando a pensare, anche perché convinti e orientati in questa direzioni da una parte della politica, che la responsabilità sia della generazione precedente, che ha avuto molti privilegi. Privilegi che hanno avuto un costo, il cui conto è stato scaricato sul futuro e di cui oggi si comincia a vedere il bilancio.
Questa interpretazione non è poi così tanto distante dalla verità, come se ne è accorta la ministra Fornero lo scorso anno, quando ha tentato - magari un po' goffamente - di formulare una riforma delle pensioni che evitasse di aggravare ulteriormente la discrepanza tra padri e figli in termini di trattamento pensionistico. Come se ne sono accorti anche Matteo Renzi e Beppe Grillo. Il primo aprendo nel centrosinistra un dibattito piuttosto duro e accesso sulla necessità di un ricambio generazionale che porti più competenza, svecchiamento di idee e modi di gestire la cosa pubblica, seguito in questo anche da alcuni esponenti del centrodestra come il sindaco di Pavia Alessandro Cattaneo. Il secondo tirando su un movimento di società civile, trasformatosi in parte in un partito politico di tipo istituzionale, che fa dello scontro generazionale uno dei motivi principali, seppure coniugato a modo proprio anche in collegamento con le altre idee del Movimento.
La responsabilità per una situazione simile è sicuramente di quella classe dirigente (politica, industriale, manageriale) che ha preferito scaricare sul futuro - come se questo fosse qualcosa che si sarebbe verificato in un tempo indeterminato, mentre i contratti di lavoro, in particolare quelli giovanili, sono sempre più precari - i problemi della società del presente, dimostrando incapacità e indolenza nell'affrontarli. Certo, non si possono accusare i genitori singoli, che individualmente si spendono sempre al massimo per dare il meglio ai propri figli, tuttavia un discorso critico - e ci piacerebbe fosse anche autocritico - verso un certo modo di gestire la società bisogna farlo.
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