di Tommaso Andreoli
Roger Federer è uno di quei rarissimi campioni testimoni che qualcosa di divino, di ultraterreno c'è, esiste. E David Foster Wallace, compianto scrittore e saggista americano di quelli grandi, per i quali la penna era il mezzo di traduzione di mirabile raffinatezza e di sinuosa eleganza, il genio l'aveva visto, osservato, descritto, al pari di come solo la mente è in grado di percepirlo. Nell'armonia di quei gesti intrisi di bellezza, le parole – quelle giuste, quelle davvero appropriate – in noi spettatori non riescono a trovare lo spazio per emergere e, anzi, si fermano come estasiate dalla contemplazione del sublime.
«La spiegazione metafisica è che Roger Federer è uno di quei rari atleti preternaturali che sembrano essere esenti, almeno in parte, da certe leggi fisiche. Validi equivalenti sono Michael Jordan, che non solo saltava a un'altezza sovraumana ma restava a mezz'aria un paio di istanti in più di quelli consentiti dalla gravità, e Muhammad Ali, che sapeva davvero "aleggiare" sul ring e sferrare due o tre jam nel tempo richiesto da uno solo. Dal 1960 in qua ci saranno altri cinque o sei esempi. E Federer rientra nel novero: nel novero di quelli che si potrebbero definire geni, mutanti o avatar. Non è mai in affanno né sbilanciato. La palla che gli va incontro rimane a mezz'aria, per lui, una frazione di secondo più del dovuto. I suoi movimenti sono flessuosi più che atletici. Come Ali, Jordan, Maradona e Gretzky, pare allo stesso tempo più e meno concreto dei suoi avversari. Specie nel completo tutto bianco che Wimbledon ancora si diverte impunemente a imporre, sembra quello che (secondo me) potrebbe benissimo essere: una creatura con il corpo fatto sia di carne sia, in un certo senso, di luce».
Il saggio su Federer (Federer come esperienza religiosa), scritto per il NY Times in occasione della finale del torneo di Wimbledon 2006 contro il rivale di sempre Rafa Nadal, nel libro è preceduto dall'inedito Democrazia e commercio agli US Open.
Con altrettanta bravura DFW sa farci immergere nell'americano rito tennistico dell'altro grande torneo dello Slam, in quel pomeriggio del 3 settembre 1995, nel Labor Day, dove a sfidarsi sul centrale di Flushing Meadows ci sono l'australiano Mark Philippoussis e l'idolo di casa Pete Sampras.
«Sembra brutale, Philippoussis, spartano, uno grosso e lento che gioca meccanicamente di potenza da fondocampo, con una cattiveria gelida negli occhi, e a paragone Sampras, che non è esattamente un pallettaro, appare quasi fragile, cerebrale, un poeta, saggio e triste allo stesso tempo, stanco come solo le democrazie sanno esserlo».
Il tennis come esperienza religiosa di David Foster Wallace
Einaudi Stile Libero Big
Pagine: 89
Prezzo: 10,00€
Premetto che non sono appassionatissimo di tennis, anche se non mi dispiace guardare, quando capita, qualche incontro. Logicamente, non essendo appassionato, non posso neppure essere competente tecnico in materia, ragion per cui il mio commento è quello di un non addetto ai lavori, di un profano.
RispondiEliminaNon è detto però che un "profano" non possa compiere un'analisi in materia "religiosa". Un discorso è la fede in qualcosa, un altro è la riflessione su di essa. (Vedi Feuerbach, Marx, Nietzsche, etc.).
Sono invece appassionato di filosofia, arte, conoscenza, e credo che in questo caso ci stiamo muovendo esattamente in questa direzione.
Direzione filosofica, perché l'autore del libro ha compiuto una sorta di ermeneutica molto raffinata del gioco del tennis, adottando la chiave di lettura mistica. Il tennis, praticato nell'eleganza dei movimenti, nella "soprannaturalità" di certi accadimenti, diventa quasi una sorta di esperienza religiosa, di epifenomeno del meta-empirico (si perdoni il linguaggio tecnico filosofico, ma è deformazione professionale) che il giocatore rivela e con cui si fonde.
Artistica, perché l'eleganza, l'armonia, l'equilibrio riportano immediatamente al concetto di bello - dunque di arte - e in particolare ad un certo tipo di bello classico, apollineo e razionale, espresso dalla cultura greca e riproposto nelle culture rinascimentale e neoclassica. Un bello antico, filtrato da categorie contemporanee.
Della conoscenza, perché la filosofia è conoscenza ed anche l'arte lo è, pur nella dimensione dell'intuizione. Diceva Benedetto Croce che l'arte rappresenta una forma di conoscenza nella dimensione intuitiva, ovvero apprensione immediata di un contenuto sensibile, prima ancora che intervenga l'organizzazione intellettuale. E l'eleganza, la bellezza, l'armonia insite nei movimenti di una ballerina che si libra nell'aria tendendo le fibre del suo corpo, di una campionessa di pattinaggio che volteggia sopra il suolo surreale del fondo ghiacciato, che dolcemente la accoglie quando riposa il suo piede per terra, di un giocatore di tennis nell'atto colpire la palla, manifestano questo contenuto superiore.